domenica 19 dicembre 2010

Interferenze culturali e linguistiche nelle formule rituali dell’Italia antica

Popoli, culture e lingue dell’Italia antica

La penisola italiana appare, nel I millennio a.C., come un mosaico di popoli e lingue diverse nonché il teatro di straordinari incontri linguistici e culturali tra le popolazioni che già precedentemente si erano stanziate sul territorio e quelle che, da quel momento in poi, hanno eletto l’Italia a meta delle proprie migrazioni. In questo millennio si delineano i mutamenti storici che si dimostreranno fondamentali per lo sviluppo della cultura italica successiva, giungendo a influenzare quella latina e infine la romana. Da un lato, in Etruria (regione comprendente l’attuale Toscana, parte dell’Umbria e dell’alto Lazio fino al Tevere), si afferma la civiltà degli Etruschi (conosciuti dai Greci col nome di Tirreni), dall’altro, nella parte più estrema della penisola ovvero nelle attuali Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia, vengono fondate le prime colonie magnogreche.
A questo quadro si aggiungono le molteplici migrazioni indoeuropee in Italia le quali, partendo dalle Alpi, toccano gran parte della penisola fino ad arrivare in Sicilia.

Carta linguistica dell’Italia antica

La maggior parte delle popolazioni precedentemente elencate (quelle di lingua indoeuropea, per la precisione) si esprime, come si è già detto, mediante lingue legate tra loro da quella che si è soliti definire parentela genetica. Con questo termine si indica generalmente la comune discendenza di parlate diverse da un medesimo ceppo linguistico; ciò accade, come si è già visto, nelle varie lingue indoeuropee parlate in Italia, dall’origine comune, ma differenziate a seconda dell’evoluzione autonoma di ciascun ramo.
Se fino ad ora si è parlato di lingue geneticamente legate e affini poiché appartenenti al medesimo ceppo, risulta invece estranea a questo tipo di legame e parentela l’etrusco, lingua di origine incerta che non sembra poter essere riconducibile alla famiglia indoeuropea e della quale un’analisi approfondita rimane ancora piuttosto difficile a causa della frammentarietà con cui tale lingua è attestata. Il legame delle lingue italiche con l’Etrusco, non classificabile come parentela genetica, è piuttosto un caso di affinità o parentela ‘acquisita’, secondo la definizione utilizzata da Pisani. Tale concetto si basa su corrispondenze interlinguistiche dovute ad una vicinanza geografica innanzitutto, nonchè al contatto culturale, economico e ad una prolungata fase di bilinguismo o plurilinguismo.

Dopo aver brevemente elencato le principali culture presenti sul territorio italico, è bene chiarire la natura e le caratteristiche del termine Italici, utilizzato per designare, in maniera forse troppo genereica, le popolazioni di stirpe indoeuropea stanziatesi nella penisola italiana. Il concetto di Italici - e conseguentemente quello di lingue italiche - ha conosciuto, col progredire degli studi al riguardo, notevoli evoluzioni e tuttora può essere utilizzato per designare concetti se non opposti, quantomeno dissimili in parte:
in principio, infatti, gli indoeuropeisti, soprattutto francesi, facenti capo ad Antoine Meillet, concepivano con tale termine una vera e propria famiglia linguistica, parallela a quella germanica o a quella celtica, per fare un esempio, nella quale venivano accomunate tutte le parlate italiche presenti sul territorio della penisola prima dell’affermarsi del latino.
Questo schema unitario fu però messo presto in discussione e la questione fu pressoché risolta dagli studi di Vittore Pisani e, soprattutto, di Giacomo Devoto il quale distinse gli Osco-Umbri dai Latino-Falisci. Tale teoria, sebbene ampliata e riformulata negli anni seguenti, si è praticamente imposta nell’indeuropeistica attuale.

Per definire i confini della Lega Linguistica italica della quale per primo parla Pisani, è bene prendere in esame tre testi, testimonianze eccezionali dell’incontro culturale e linguistico della cultura italica, etrusca e latina.


Tavole iguvine



La divinità principale italica è senza dubbio, come anche per Greci e Latini, il dio del cielo e della luce il cui nome originale deriva dalla radice *djew- (Dyaus sanscrito, Zeus greco, *Dius latino e *Dious italico, purtroppo non conservatisi isolatamente, ma solo nella forma Juppiter ‘dio padre’).
Nei nomi delle tribù italiche è lampate la persistenza dell’uso indeuropeo di prendere il nome della tribù o della famiglia da un’animale, secondo il rituale del ver sacrum (come ad esempio i Piceni, così chiamati dal nome del picchio, animale sacro a Marte).
Questo non è l’unico caso in cui la religione italica influenzi i nomi e la lingua stessa: si pensi, infatti, all’intricato pantheon iguvino, composto perlopiù da genealogie di numerose divinità riconducibili a cinque principali (la roccia sacra Grabo, Propd- ‘la crescita’, Cubra ‘la buona’, Sake ‘il patto’ e Hodo dal valore sconosciuto). Una volta che un teonimo viene trasformato in aggettivo, esso assume capacità di determinare come attributo un’altra divinità, ad esempio la roccia Grabo va qualificare Giove della Montagna, Giove Grabovio.
Una peculiarità del pantheon umbro è poi la suddivisione in triadi; peculiarità che, secondo Luisa Banti, dalla cultura iguvina passò a influenzare quella etrusca. La triade iguvina fondamentale è composta da Giove, Marte e Vofiono: mentre Giove può essere facilmente accomunato all’etrusco Tinia, le altre due divinità umbre maschili vengono sostituite, in Etruria, da due femminili, Uni e Menerva.
Oltre a questa triade principale e ad altre secondarie, la religione umbra annovera inoltre un gran numero di divinità minori legate all’ambio naturale e delle quali sono facilmente rintracciabili le corrispettive latine tra le quali spiccano Kerria ‘Flora’ e le Diumpas Kerriias, ninfe o divinità delle acque.
Le divinità straniere che hanno riscosso più successo in territorio italico sono senza dubbio Eracle, forse mutuato dai greci campani grazie alla medazione etrusca, e i Dioscuri.
Le offerte iguvine durante le cerimonie sacre si dividono, secondo quanto tramandatoci dalle Tavole iguvine, nelle due grandi categorie sakri- e perakni-, la prima comprende tutto ciò proveniente da allevamenti o coltivazioni sacre, la seconda, invece, accomuna tutto quanto provenga dall’esterno e sia, per questo motivo, profano. Delle offerte non cruente la principale è la poni, liquido sacro che appare da solo o accompagnato dal vino. Anche le focacce sacre sono numerosissime e impiegate largamente.

Le Tavole Iguvine rappresentano un fortuito e rarissimo caso di conservazione di un testo tanto arcaico quanto importante per la lingua Umbra. Nelle sette tavole bronzee a noi pervenute sono conservate, infatti, formule rituali arcaiche in uso ancora fino alla tarda età repubblicana e augustea e, al contempo, uno straordinario esempio di prosa religiosa arcaica. Questo testo o meglio l’unione dei testi che costituiscono l’insieme delle Tavole, ha dunque un grande valore sia storico che linguistico: grazie alla loro complessità, infatti, forniscono molte più informazioni di quante potrebbero offrirne iscrizioni funebri e altri testi epigrafici, conferendo all’Umbro una dignità maggiore di molte lingue tramandate esclusivamente da una documentazione sporadica e frammentaria.
La consuetudine di iscrivere testi di particolare valenza, giuridica o liturgica che fosse, su di un supporto bronzeo non è certo nuova nel panorama culturale antico: si pensi, ad esempio, alle Tavole di Heraclea oggi conservate a Napoli, alla Tavola di Cortona e alla Lamina di Pyrgi, entrambe in lingua etrusca o al Foedus Cassianum che, secondo la testimonianza di Cicerone, era stato riprodotto su di una colonna bronzea esposta presso i rostri. Sono due le principali caratteristiche comuni a questi testi: la scelta del bronzo come materiale di supporto innanzitutto, perenne e caro alla ritualità arcaica; in secondo luogo il loro carattere di documenti di grande rilevanza esposti al pubblico.
Il testo delle Tavole Iguvine non è definibile come calendario liturgico né come descrizione di un singolo rituale ma contiene, seppur parzialmente, prescrizioni legate allo svolgimento di una processione sacra, formule di purificazione e norme che regolano i rapporti tra la Confraternita degli Atiedii e le Curie.


Liber Linteus di Zagabria


La religione è senza dubbio uno dei campi più studiati dagli etruscologi, vuoi perché un gran numero di notizie ci è giunto da scrittori antichi, vuoi perché le stragrande maggioranza delle fonti epigrafiche proviene da una ambito sepolcrale o comunque legato alla sfera della sacralità. È interessante osservare che molte divinità etrusche abbiano un’iconografia molto spesso di origine greca, anche se ciò non implica necessariamente una medesima sfera d’influenza.
Tin (o Tina o Tinia), divinità principale del pantheon etrusco, è raffigurata, ad esempio, con una corona in testa e con in mano uno scettro o un fulmine, analogamente a Zeus. Varrone indica invece come deus Etruriae princeps il dio Vortumnus (o Voltumna o Vertumnus) il quale, apparentemente non sovrapponibile a Tinia, in realtà potrebbe rivelarsi un semplice attributo della stessa divinità.
Le fonti archeologiche non forniscono notizie che possano avvalorare l’ipotesi della presenza di culti che coinvolgessero l’intero popolo etrusco (almeno fino alla prima metà del VII secolo), ma piuttosto sembrano indicare una grande presenza di rituali privati. Dalla seconda metà del VII secolo iniziano a moltiplicarsi i templi nelle città etrusche, come, ad esempio, a Tarquinia, Cere e Veio: secondo Servio una città etrusca, per essere regolare, doveva avere all’interno delle mura i templi di Tinia (Giove), Uni (Giunone) e Menerva (Minerva).
Una caratteristica (presunta o comunque difficilmente dimostrabile con certezza) del pantheon etrusco è la sua divisibilità per triadi. La principale sarebbe la stessa riportata da Servio, anche se non se ne hanno testimonianze dirette in Etruria ma solo a Roma, durante la fase di egemonia etrusca (monarchia dei Tarquini). Più interessante, anche perché strettamente legato alla religiosità italica e latina, è la qualificazione di una divinità con un aggettivo derivante dal nome di un’altra o con l’aggiunta specifica del nome dell’altra, al fine di delineare un rapporto genealogico (Tinas cliniiar: figli di Tina ossia i Dioscuri), un processo di assimilazione (Fufluns Pachie: Dioniso Bacco) o una qualifica specifica (Tinia calusna: Tinia di Calu o Tinia infero).
Altra peculiarità del senso religioso etrusco è la divinazione nelle sue varie forme (epatoscopia, arte fulgurale, arte ostentaria, cleromanzia, auspicio, libanomanzia, lecanomanzia), attività nella quale gli etruschi sembrano eccellere al punto da influenzare anche la vicina civiltà romana arcaica.

Il Liber linteus (o Mummia) di Zagabria è senza dubbio un unicum nel panorama dei documenti etruschi a noi pervenuti: tale eccezionalità è dovuta non solo alla lunghezza (approssimativamente 1300 parole) ma anche alla natura del suo contenuto e per il materiale impiegato come supporto. Il testo è scritto su undici bende di lino di lunghezza variabile, dai 3,24 m ai 28 cm, numerate in ordine decrescente. Ci si è recentemente chiesti se le bende potessero far parte di un codex piuttosto che di un volumen anche se si tende a considerare il Liber un vero e proprio involto, data l’assenza di lesioni negli spazi bianchi tra colonne, parte che, in un codex, avrebbe subito un’usura maggiore.
Grandi discussioni hanno suscitato per lungo tempo anche la provenienza e il contenuto del testo: prima di tale scoperta si credeva infatti impossibile un contatto culturale tra la penisola Italiana e l’Egitto che fosse anteriore alle conquiste romane. Tale contatto è invece stato provato in seguito, oltre che dalla Mummia stessa, anche da incisioni funerarie ritrovate ad Alessandria e risalenti all’età ellenistica nelle quali erano presenti nomi etnici che ricordano origine italica o addirittura tirrenica del defunto.
Per quanto riguarda il contenuto, il testo fu dapprima scambiato per un conteggio di persone e oggetti piuttosto che per un calendario liturgico come successivamente si rivelò. All’analisi più completa e profonda condotta da Olzscha, risultò che il Liber presentava spesso la struttura di una preghiera, confrontabile con i testi rituali italici e latini.


De agricultura


Sebbene ci siano stati studiosi che hanno cercato di riconoscere nella religione latina delle origini un senso del sacro elementare che riconoscesse nel numen una potenza indistinta e che permeasse di sé la realtà, tale teoria è facilmente confutabile grazie alla presenza in latino del termine deus, ereditato dall’indoeuropeo insieme ad un senso religioso ben più maturo e complesso.
Una caratteristica della religione latina rispetto a quelle greche e indoiraniche (oltre all’assenza di legami mitologici tra divinità e ad una sostanziale interdipendenza di rito e mito, caratteristica questa comune al senso della sacralità iguvino) è senza dubbio quella della prudenza che spinge all’inserimento di formule quasi giuridiche nell’ambito dei rituali sacri: non è raro trovare, infatti, la formula sive deus sive dea, la quale manifesta una radicale incertezza sulla natura - in questo caso sessuale - del divino.
La sistemazione del culto romano in un calendario organizzato è probabilmente dovuto al periodo egemonico etrusco su Roma: se infatti i riti latini erano già fissati nei particolari del loro svolgimento, solo grazie al calendario liturgico, mediato dagli etruschi ma proveniente dal mondo culturale magnogreco, questi ebbero una collocazione più stabile all’interno dell’anno. Stessa cosa si può dire dei santuari, sempre di origine greco-etrusca, prima dell’avvento dei quali le celebrazioni religiose erano officiate presso i vari sacelli o spazi sacri presenti in gran numero all’interno o intorno al territorio cittadino.
La principale triade divina romana arcaica (abbiamo già incontrato triadi divine sia presso gli etruschi che presso gli umbri) è quella composta da Giove, Marte e Quirino, l’ultimo dei quali non più tanto vitale in periodo storico. Da un punto di vista linguistico il nome di Quirino, al contrario di quelli di Giove < *Jou- e Marte <*Mart- (accomunabili alle prime due divinità della triade iguvina) che sono evidentemente sostantivi, sembra piuttosto un aggettivo, derivato in -no- di un tema nominale, come, d’altro canto, l’umbro Vofiono: tale caratteristica comune può essere considerata dunque preromana e preumbra, certamente più vicina all’origine indoeuropea delle triadi divine. Con l’affermarsi della Repubblica a Roma questa prima triade viene sostituita, forse per l’influenza della principale triade etrusca, dalla cosiddetta ‘triade capitolina’, composta sempre da Giove, affiancato questa volta da Giunone Regina e Minerva, ‘divinità collettiva dei mestieri e di coloro che li esercitano’, secondo la definizione data da Dumézil. La liturgia romana arcaica è ricca di rituali tanto pubblici, i sacra publica officiati a favore di Roma nel suo complesso o delle sue ripartizioni ufficiali, quanto privati, i sacra privata compiuti a vantaggio di ripartizioni non ufficiali, dalla gens alla familia. Le divinità principali della casa sono il Genius del padrone, il Lare domestico e i Penati, oggetto del culto quotidiano. Il culto privato può essere inoltre indirizzato anche a divinità maggiori, soprattutto a Cerere e Silvano, divinità d’ambito agricolo. Nell’ambito della produzione catoniana si tende a classificare il De Agricultura come un’opera secondaria e dallo scarso valore artistico. Se lo si considera però come una delle principali testimonianze della situazione sociale ed economica nelle campagne italiche intorno alla metà del II secolo a.C. e come uno tra i primi e più importanti documenti della prosa letteraria latina nel quale confluiscono tradizioni indigene, il folclore della società contadina arcaica, precettistica scientifica o pseudo tale di origine greca, se ne coglie il senso, l’importanza e ci si rende conto di quanto profondamente l’opera sia influenzata dall’animo e dalla personalità catoniana. La sezione più strettamente legata all’agricoltura si riduce ad un unico quarto del trattato mentre ampio spazio è dato ad altri campi del sapere tecnico-pratico. Si incontra, dunque, una sezione ‘meccanica’ nella quale è illustrato il procedimento di costruzione di macchinari finalizzati alla produzione e al trattamento di coltivazioni peculiari (quali la vite e l’ulivo in primis), una sezione ‘edile’ tesa ad illustrare le tecniche di costruzione della villa, una sezione ‘giuridica’ dedicata ai contratti-tipo, una sezione ‘culinaria’ e infine la sezione ‘religiosa’, nella quale sono conservate formule rituali arcaiche per la propiziazione delle attività agricole, insieme ad una rielaborazione di tradizioni mediche greche per curare uomini e animali. Il risultato è una sorta di piccola enciclopedia del proprietario terriero nella quale si fondono le tradizioni della manualistica specializzata e della trattatistica tecnica di tema agricolo


Conclusioni

Almeno secondo la definzione che ne da Pisani, la lega linguistica italica, anche definita come ‘italico’, è così chiamata poiché si estende grossomodo a tutto il territorio dell’Italia augustea, considerandone anche le relazioni esterne con altri territori, come ad esempio la Gallia e la penisola balcanica. Nonostante oggi sfugga la gran parte dei fatti di natura storica, economica e politica che portarono allo sviluppo di tale lega, si può brevemente accennare alle popolazioni e ai centri che, in diverse epoche, esercitarono, almeno sul piano culturale, una funzione direttiva su buona parte dell’Italia: anzitutto gli Etruschi che, dall’Italia centrale irradiarono la loro cultura (e soprattutto il loro alfabeto, mutuato dal greco), verso le Alpi da un lato e, dall’altro, verso il sud, fino almeno alla Campania, fornendo un modo di scrivere a Oschi, Umbri, Romani, Falisci, Piceni, Veneti e agli altri popoli dell’Italia settentrionale, di qui giungendo ai Germani, che lo rielaborarono nelle rune. Prendendo in esame l’alfabeto, caratteristica più manifesta dei testi esaminati, risulta, ad esempio, che le Tavole Iguvine sono compilate sia in alfabeto latino (V verso 8-18, VI r/v, VII r/v) che in alfabeto nazionale. Tale alfabeto nazionale umbro deriva da un etrusco recente di tipo perugino, mentre in V verso 1-7 Heurgon ha riconosciuto piuttosto un modello cortonese. Resta comunque certo che l’influenza degli Etruschi, in questo senso, sia massiccia, nonostante le deficienze dell’alfabeto etrusco siano state colmate dall’introduzione di grafemi originali umbri. A tale difficoltà di resa dei fonemi tipici dell’umbro ha dovuto sogper il giacere anche l’alfabeto latino. Anche gli Oschi, dal loro nucleo campano, imposero la propria lingua come lingua letteraria (si pensi ai tria corda di Ennio o all’importante ruolo giocato dalla fabula atellana, oggi purtroppo non pervenutaci, nella formazione di una letteratura latina). Furono importanti inoltre gli apporti culturali provenienti dalle colonie magnogreche, dagli influssi balcanici sulla costa adriatica, dall’invasione gallica nella pianura padana. Da ciascuno dei centri culturali e politici italici si sono irradiati, di volta in volta, i fatti religiosi, sociali e soprattutto linguistici comuni che ci consentono di parlare di una ‘lega linguistica italica’. Soffermandoci ora sull’aspetto linguistico della questione e consideriamo dapprima l’accento: un accento d’intensità sulla prima sillaba della parola deve aver determinato sincopi ed indebolimenti vocalici nelle sillabe successive tanto in latino quanto in oscoumbro ed etrusco. C’è la possibilità che, per quanto riguarda latino e oscoumbro, tale accentazione risalga alle loro radici indoeuropee occidentali (comune dunque anche al germanico e a parte del celtico) ma è impossibile affermare con certezza se siano stati protolatino e protooscoumbro a influenzare, in età preistorica l’etrusco o se tale caratteristica fosse connaturata alle lingue citate già da prima che si incontrassero in Italia. Nel vocalismo si segnala soprattutto il passaggio eu > ou, fenomeno che sembra interessare buona parte dell’Italia. L’ou così sorto, insieme agli ou più antichi, tende poi a mottongare in o, u. Tale monottongazione, non accettata dal latino classico ma ampiamente attestata in quello volgare, ha probabilmente come epicentro l’umbro o il falisco.
Per quanto riguarda il consonantismo è interessante notare l’alternanza e l’opposizione di f- e h- in posizione iniziale, tanto in etrusco (per esempio hasti accanto a fasti, haltu accanto a faltu) quanto, seppur meno palese, in latino (per esempio fedus e haedus, fircus e hircus, horda e forda) e in falisco (haba e faba, hodie e foied). Tale opposizione è plausibilmente spiegabile con la resistenza di un h- di sostrato ad un f- di ragione indoeuropea, come suggerisce il confronto con altre lingue di medesima origine. Ad un sostrato ‘mediterraneo’ sarebbe riconducibile anche il rotacismo di -d-, vistoso soprattutto nell’umbro (peri, persi = latino pede) e di lì penetrato nel latino. Di particolare rilevanza, inoltre, sono il rotacismo di -s- intervocalico, presente in osco, umbro, falisco e latino e la palatalizzazione e spirantizzazione del nesso C + j.
Un confronto morfologico, data la relativa scarsezza di testimonianze etrusche e la non appartenenza dell’etrusco stesso alla derivazione indoeuropea comune alle altre lingue italiche in questione, risulterebbe piuttosto un elenco di isoglosse latino-oscoumbre. È interessante, invece, aprire una seppur breve parentesi sul lessico.
In latino confluiscono vocaboli etruschi e greci, questi ultimi sia direttamente che attraverso la mediazione dall’etrusco stesso; soprattutto in oscoumbro confluiscono invece vocaboli latini, specialmente di carattere amministrativo, politico e giuridico (per esempio, in oscoumbro akkatus < advocatus, aidilis < aediles, ceus < civis); dall’oscoumbro, invece, il latino mutua vocaboli quali pius < *quei-, popa ‘sacerdote’ < *pequ- e scrofa, con -f- oscoumbro.


Lo studio dell’etrusco ha da sempre offerto particolari difficoltà agli studiosi, i quali si sono approcciati alla scarsa documentazione giuntaci con vari metodi ermeneutici:
tra i primi attuati è quello etimologico classico che, applicato integralmente, non ha portato a risultati criticamente validi. Altro metodo è quello combinatorio, sviluppatosi al principio del secolo sorso come reazione alle grandi prove fallite dell’etimologismo, che consiste in uno studio interno dei testi etruschi, nel raffronto e nella combinazione dei loro elementi lessicali e morfologici. Oltre al recente metodo strutturale, quello che più interessa la nostra trattazione è senza dubbio il cosiddetto bilinguismo, nato dall’accostamento dei singoli testi etruschi ad altrettanti testi di origine greca, latina o italica che presumibilmente potevano presumersi di natura affine. Sono da annoverare in quest’ambito gli studi di Olzscha a partire dal 1934 che propongono uno studio del Liber linteus di Zagabria condotto mediante il confronto con le Tavole Iguvine e con formule sacrificali latine.

Le Tavole Iguvine sono, senza alcun dubbio, il riflesso su bronzo di libri rituali vergati, plausibilmente, su di un materiale deperibile; il Liber linteus, a sua volta, è un fortunatissimo esempio di conservazione di un libro rituale analogo. Prosdocimi, nell’ambito del suo lavoro in Lingue e dialetti dell’Italia antica, azzarda addirittura l’ipotesi che i testi alla base dei libri rituali in questione e di quelli di area etrusca e circumetrusca fossero di una medesima matrice, ipotesi che è alla base del metodo bilinguistico di cui si è detto sopra.

Continuando con il nostro confronto, si può dimostrare che la vicinanza strutturale di piaculo e lustrazione nelle Tavole iguvine con le formule catoniane (soprattutto i capp. 134-141), giustifichi l’esistenza di una stessa struttura alla base dei due testi:
un esempio per tutti di questa corrispondenza della compaginazione generale, delle sequenze, dei giri sintattici e soprattutto delle clausole rituali dei due testi, è l’incredibile somiglianza della clausola di nullità del piaculo nei due testi, tanto vicina che l’opera catoniana diviene chiave interpretativa del passo iguvino.

Alla luce di tale esempio risulta chiaro che questa stessa struttura alla base dei due testi non può ridursi nella semplice comunanza rituale ma, piuttosto, in un vero e proprio archetipo, non certo lachmanniano, ma modello da riempire e modificare a seconda del rito. L’esistenza di tali brogliacci è palesata dalle Tavole iguvine stesse, dove la preghiera sacrificale a Giove Grabovio, in extenso in VIa 23-25, viene riformulata altrove con una struttura sempre uguale, nella quale il nome Giove Grabovio è presto sostituito, di volta in volta, con quello di Trebo, Tefro, Fiso e via dicendo.


Bibliografia essenziale

Ancillotti A. - Cerri R. 1996, Le Tavole di Gubbio e la civiltà degli umbri, Perugia, Jama.


Belfiore V. 2010, Il liber linteus di Zagabria: testualità e contenuto, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore.


Bottiglioni G. 1954, Manuale dei dialetti italici (Osco, Umbro e dialetti minori), Bologna.


Canali L. - Lelli E. 2000, Catone il Censore / L’agricoltura, Milano, A. Mondadori.


Devoto G. 1951, Gli antichi italici, 2° edizione, Firenze, Vallecchi.


Dumezil G. 1977, La religione romana arcaica, Milano, Rizzoli.


Lejeune M. - Briquel D. 1988, ‘Lingue e scritture’, in Italia omnium terrarum alumna: la civiltà dei Veneti, Reti, Liguri, Piceni, Umbri, Latini, Campani e Iapigi, Milano, Libri Scheiwiller, pp. 434-474.


Prosdocimi A. L. 1972, ‘Redazione e struttura testuale delle Tavole Iguvine’, in Aufstieg und Niedergang der romischen Welt, Berlin.

- 1978, Lingue e dialetti dell’Italia antica, Roma, Biblioteca di Storia Patria.


F. 1985, ‘Il liber linteus di Zagabria’, in Scrivere Etrusco, Milano, U. Hoepli, pp. 17-54.




A.


domenica 19 settembre 2010

Sardegna nord-occidentale: tra storia, mare e cultura

L’estate sta volgendo al termine molto rapidamente: gli impegni lavorativo-scolastici sono alle porte, le città si stanno ripopolando, e in molte zone è già tempo di tirar fuori i cappotti. Cosa c’è di meglio, dunque, che fantasticare sulla meta delle prossime (e lontane) vacanze estive? Vi proponiamo un reportage turistico su una delle mete preferite dell’Italia intera: la Sardegna. Un’isola grande ed anche estremamente varia, conosciuta generalmente soprattutto per la bella (?) vita della Costa Smeralda. In questo articolo vi condurremo alla scoperta di un’altra zona molto affascinante, anche se meno conosciuta: la Sardegna Nord-Occidentale, occupata dalla grande pianura della Nurra. Terra di storia, arte, gastronomia, e oltretutto bagnata da un mare meraviglioso.


Stintino

Si tratta di un piccolo paese – circa 1600 abitanti – adagiato sull’estrema punta nord-occidentale della Sardegna. Di storia abbastanza recente – i primi insediamenti nella zona risalgono alla fine dell’Ottocento, mentre la città è un comune autonomo soltanto dal 1988 – Stintino basa la sua economia soprattutto sul turismo. E, dopo un’attenta perlustrazione del luogo, se ne capiscono facilmente i motivi.


Stintino: il mare presso la spiaggia della Pelosa (foto di Luigi & Valeria)

La principale attrattiva turistica del paese è la famosa spiaggia della Pelosa, rinomata come una delle più belle dell’intera isola. È situata a qualche chilometro dal centro, a nord, in località Rocca Ruja e proprio a ridosso del Capo Falcone. Si tratta di un classico tratto di costa mediterranea: una piccola duna separa il lungomare (con parcheggi interamente a pagamento) dalla spiaggia, cui si accede tramite alcune belle passerelle in legno opportunamente predisposte dall’amministrazione comunale. La spiaggia non è molto grande e risulta estremamente sovraffollata (anche in bassa-media stagione, come a settembre), ma la sua fama è meritata: sabbia bianchissima e acqua cristallina, come solo nelle fotografie esotiche si può ammirare. Proprio di fronte al litorale, emergono dal mare l’Isola Piana e, più distante, la grande Isola dell’Asinara. È possibile affittare un ombrellone o una sdraio, oppure noleggiare una canoa, un pedalò o persino un piccolo gommone per effettuare un giro nei dintorni: noi abbiamo provato la canoa, e tenendoci sotto costa abbiamo pagaiato alla scoperta di incantevoli scenari rocciosi (occhio però agli scogli che affiorano a pelo d’acqua!). Il mare è generalmente molto pulito; inoltre, a causa dello stretto e del gioco delle correnti, l’acqua è quasi sempre calma, anche con il vento forte.

Proseguendo verso nord, si giunge all’estremo promontorio della penisola, il già citato Capo Falcone, dalla cui sommità si può godere di una bella vista su tutto il golfo dell’Asinara. Proprio ai suoi piedi si trova un’altra spiaggia degna di essere visitata, la cosiddetta Pelosetta. Piccola e stretta, questo lembo di spiaggia è incastonato tra una aspra parete rocciosa, ma la discesa piuttosto sconnessa e difficoltosa è ripagata dal meraviglioso mare in cui si può tuffare. È possibile raggiungere, a piedi o a nuoto, un piccolo scoglio a poche decine di metri, su cui sorge una torre aragonese del Cinquecento. Una volta giunti dall’altra parte, la soddisfazione per avercela fatta è tanta, e la vista del promontorio roccioso è stupefacente.



Stintino: la torre della Pelosa e, sullo sfondo, l'Isola Piana e l'Isola dell'Asinara (foto di Luigi & Valeria)

Altra spiaggia cui è possibile fare una capatina è la cosiddetta Cala Coscia di Donna, sul versante ovest della penisola. Vi si accede tramite una strada sterrata, che conduce a un parcheggio da cui si prosegue a piedi: la spiaggia è di ciottoli, ma la vista – specialmente nel tardo pomeriggio e al tramonto – toglie il fiato. Molto caratteristica, a sud e sul versante est, anche la spiaggia delle Saline, nelle immediate vicinanze della quale sorge un’altra torre.

Anche il centro di Stintino è molto bello. Il paese è organizzato con delle rigide logiche geometriche, che danno vita a strade e vicoli perpendicolari gli uni agli altri. Costruito su un piccolo promontorio, rivolto a est, vanta due porti, una piccola chiesa, e una via principale su cui si affacciano i principali negozi. Diversi ristoranti si possono trovare sulla strada che costeggia il mare e il porto, mentre abbondano piccoli ma caratteristici Bed and Breakfast. Da Stintino partono anche le motonavi che conducono al Parco Nazionale dell’Asinara.



Castelsardo

Castelsardo è un comune di circa 5.800 abitanti ricco di storia e di suggestioni. La sua storia comincia già in età romana, per poi subire una brusca frenata con la caduta dell’Impero Romano. Soltanto nel 1102 la città riprende il suo sviluppo, soprattutto grazie all’intervento della famiglia genovese dei Doria, che fa edificare un castello sulla sommità del promontorio su cui l’abitato sorge. La città è passata poi, nel corso dei secoli, sotto la dominazione aragonese e sotto il controllo di Casa Savoia, fino ad affermarsi, in epoca molto recente, come un attivo centro turistico e culturale.


Castelsardo: panoramica della città vista da Ovest (foto di pubblico dominio)

Tralasciando la parte moderna della città – scarsamente rilevante per il turista – è d’obbligo una visita approfondita al centro storico del paese. La rocca di Castelsardo è edificata sulla sommità di un piccolo promontorio, in modo da affacciarsi su due specchi di mare. Si può salire in macchina per un tratto, poi i non-residenti devono proseguire a piedi. La vista dall’alto è molto suggestiva, e già da sola ripagherebbe della scomoda salita: ma addentrandosi per le viuzze e i vicoli del paese si viene in breve conquistati dall’atmosfera medievale della cittadina. Su tutto domina il castello, visitabile ad un prezzo molto esiguo; girovagando per le stradine ci si imbatte poi in una piccola Cattedrale (intitolata a Sant’Antonio Abate, patrono cittadino) e nella buia ma affascinante Chiesa di Santa Maria. Particolarmente suggestiva è la camminata lungo la cinta muraria della città, che circonda l’intero centro storico: oltre a godere di un panorama splendido, da qui è anche possibile scendere verso un bellissimo parco adiacente alla scogliera, proprio sulle pendici della rocca.

Nel centro storico sono diverse le trattorie, che offrono anche menù a prezzi molto bassi, ed è possibile acquistare souvenir e prodotti tipici (tra cui gli oggetti in corallo, artigianato tipico locale). Per quanto riguarda la balneazione, invece, le coste adiacenti alla città sono frastagliate e rocciose, e quindi di difficile accesso; nella vicina frazione di Lu Bagnu, invece, è presente un piccolo lungomare e una bella spiaggia sabbiosa.



Alghero

Città di oltre 40.000 abitanti, Alghero è una piccola sorpresa: ricca di storia, cultura e paesaggi naturali, conquista il turista occasionale e fa venire voglia di tornare. I primi insediamenti umani risalgono alla civiltà nuragica, di cui restano ancora delle testimonianze nei dintorni, per poi passare nelle mani dei Fenici prima e dei Romani poi. La parte più rilevante della sua storia comincia nel 1300, quando la città fu conquistata dai catalani, che ne mantennero il controllo per circa un secolo prima di perderla in favore dei Doria. La dominazione catalana è stata fondamentale per Alghero: ancora oggi vi si parla un dialetto che è una variante del catalano, e la cultura della regione spagnola è tanto viva che la città è conosciuta con il nome di “Barceloneta”.



Alghero: tipica via cittadina (foto di Luigi & Valeria)

Superata la parte nuova della città – che offre un bellissimo lungomare, attrezzato con piste ciclabili e dotato di un particolare stile contemporaneo – si giunge nel centro storico, chiuso al traffico per i non-residenti. Entrando a piedi si rimane subito colpiti dall’intricato sistema di viuzze che si dipana tra gli antichi palazzi. Su tutto, spicca la cupola della chiesa di San Michele, variopinta e realizzata con maioliche. Il centro cittadino è molto caratteristico, e rappresenta anche l’anima commerciale del paese: abbondano i negozi (anche qui l’artigianato locale si focalizza sul corallo), così come gli alberghi e i ristoranti.



Alghero: panoramica dei bastioni (foto di scarabeo150)

La passeggiata è molto piacevole, e giunge il suo culmine sui bastioni a picco sul mare che delimitano la parte antica della città. È possibile percorrerli tutti, essendo ormai stati trasformati in strade, ammirando le torri fortificate e una splendida vista sul mare. La città è affacciata a occidente, quindi il momento migliore per questa gita è senza dubbio il tardo pomeriggio, quando si può godere di uno spettacolare tramonto. Una menzione particolare meritano i numerosi ristoranti situati in questa zona, che offrono ai propri clienti la possibilità unica di cenare con una vista davvero indimenticabile, gustando una delle specialità marinare locali (Alghero è famosa soprattutto per la cucina dell’aragosta).

Nelle vicinanze abbondano anche i siti naturali. Numerose sono le spiagge di interesse, a prima vista tutte meritevoli di una visita. A pochi chilometri in direzione nord-ovest, inoltre, si trova il Parco Regionale di Porto Conte, situato sul promontorio di Capo Caccia; al suo interno sono ospitate anche le famose e suggestive Grotte di Nettuno. Infine, in direzione nord, è situata l’antica necropoli prenuragica di Anghelu Ruju.



Come arrivare

La zona è raggiungibile in diversi modi. Va da sé che è preferibile arrivarvi con un mezzo proprio, in modo da esplorare i dintorni con facilità. È consigliabile quindi imbarcarsi dalla terraferma alla volta di Porto Torres, lo scalo più vicino alla zona, raggiungibile da Genova e Civitavecchia. Noi, alla prima esperienza in Sardegna, abbiamo preferito però sbarcare a Olbia, sulla costa nord-orientale, e poi attraversare in direzione est-ovest l’isola. Ciò, oltre ad essere immensamente più economico, ci ha permesso anche di ammirare parte dell’entroterra sardo nelle sue varianti (dal verdeggiante al brullo), oltre che attraversare la bella zona del Monte Acuto e a transitare di fianco alla magnifica Basilica di Saccargia, che meriterebbero entrambe una seconda visita.

In alternativa, è possibile arrivare in aereo all’Aeroporto di Alghero-Fertilia. Da qui si può giungere ad Alghero e Stintino tramite degli autobus locali.


Luigi (testo)

Valeria (foto)

sabato 7 agosto 2010

Legge ebraica e legge dei Cesari: davvero così inconciliabili? Esigenze di tolleranza e tentativi di avvicinamento nella Roma del V secolo.

Quando Ebrei e Romani entrarono per la prima volta in contatto, al tempo della dominazione greco-siriana sulla Palestina, non vi furono ostilità. Anzi, nel primo libro dei Maccabei si dice che "il regno dei Greci riduceva Israele in schiavitù" (I, 8.18), mentre "nessuno dei Romani si è imposto il diadema e non vestono la porpora per fregiarsene" (I, 8.14). Ma già alla fine del regno di Erode il Grande (37 aC - 4 dC), quando la Giudea divenne provincia romana, cominciavano ad intravedersi i fermenti che avrebbero portato alla rottura, consumatasi tragicamente con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme ad opera delle legioni comandate da Tito Flavio Vespasiano (70 dC). Le differenze culturali fra il mondo romano e quello ebraico non potevano essere più profonde, e il divario continuò ad aumentare dopo che il Cristianesimo si impose come religione ufficiale dell' Impero, in conseguenza all' Editto di Tessalonica del 380.

Tra IV e V secolo la posizione dell' intera comunità ebraica era diventata materia di discussione. Leggi imperiali di questo periodo comportavano l' esclusione degli Ebrei da tutte le cariche civili del governo. In questi anni più e più volte le sinagoghe di Roma e di altre parti d' Italia furono distrutte o spogliate delle ricchezze che contenevano. Le tensioni fra comunità ebraica e comunità romana cristiana erano intense.

E' in questo clima che si inserisce la Collatio legum Mosaicarum et Romanarum o Lex Dei, un' opera strutturata come una comparazione fra la legge mosaica e legge romana con lo scopo di mostrare la non conflittualità dei due sistemi giuridici. L' intento è apologetico, quindi, e riprende l' antica ed annosa discussione sulla validità della legge mosaica, resa più attuale dal confronto con il mondo cristiano, che aveva prodotto nei suoi primi secoli di vita le lettere di Paolo, permeate da un' intensa preoccupazione esegetica.

L' opera, rinvenuta nel 1572 dal giurista ed editore Pietro Pithou a Parigi, benchè anonima, permette di ricavare alcune notizie sul suo autore (o autrice). Nonostante la tesi più seguita sia stata quella di un' origine latina dell' autore, negli ultimi anni si è rafforzata la sensazione che egli provenga dal mondo ebraico, non soltanto a causa dell' evidente padronanza della lingua ebraica, ma anche per la preponderante considerazione che mostra per i libri della Torah; che poi fosse un ebreo occidentale della diaspora è intuibile dalla scelta stessa dell' opera e del resto, mentre non era frequente che un Romano del V secolo, benché acculturato, conoscesse l' ebraico e riuscisse a tradurlo, era infinitamente più probabile che un ebreo di ceto medio-alto di una comunità italica, per esempio quella di Roma, parlasse correttamente e ad un livello elevato il latino. Personaggi come l' autore della Lex Dei testimoniano come per certi Ebrei fosse possibile accedere ai testi della tradizione legale, e non solo, romana, e padroneggiarli a tal punto da inserirli in un' opera concettuale da cui la tradizione culturale ebraica uscisse rafforzata, tra l' altro rispondendo agli attacchi verso la legge mosaica condotti dai Cristiani, le cui gerarchie ecclesiastiche miravano a sottrarre agli Ebrei anche il secolare diritto a vivere suis moribus come cittadini romani.

Nonostante l' elevato intento ideale, l' opera, nella sua realizzazione pratica, è di scarso valore: in ognuno dei sedici tituli, corrispondenti a sedici argomenti legali, ci si limita a citare un brano del Pentateuco tradotto in latino ed introdotto da locuzioni tipo Moyses dicit e ad affiancargli estratti dai cinque giuristi romani par excellence (quelli della legge del 426 c.d delle citazioni), Gaio, Modestino, Paolo, Ulpiano e Papiniano, concludendo talvolta con il riferimento ad alcune costituzioni imperiali. Non c'è nessun commento, nessun brano scritto di propria mano dall' autore.

Per quanto riguarda la cronologia, la mancanza di riferimenti alla legislazione costantiniana e degli altri imperatori cristiani potrebbe far pensare ad una redazione precedente all' età cristiana, ma sono molteplici gli aspetti che ci riconducono in età più tarda. Dall' analisi testuale risultano evidenti gli influssi della traduzione della Bibbia ad opera di Girolamo, completata nel 405, mentre la legge delle citazioni e due importanti costituzioni in materia successoria, che portarono grosse limitazioni a carico degli Ebrei, potrebbero essere lo spunto per la composizione dell' opera. Inoltre, la legge sull' omosessualità varata da Valentiniano, Teodosio I e Arcadio, citata in V.3, risale al 390.

Il Codex Theodosianus è una raccolta in sedici capitoli (cfr. i sedici tituli della Collatio) di costituzioni imperiali voluta da Teodosio II nel 438. Alcuni hanno liquidato frettolosamente l' annotazione idem in Theodosiano (sempre in V.3) come un' interpolazione, ma non necessariamente deve essere stata aggiunta molto tempo dopo nè le si può negare lo status di correzione marginale ad opera per esempio di un maestro di scuola. Inoltre, sembra innegabile la derivazione del XV titulus della Collatio De maleficis et mathematicis et Manichaeis da De maleficis et mathematicis et ceteris similibus del Teodosiano (ricorrente anche in De haereticis et manichaeis et samaritis del Codice Giustinianeo, datato però al 534): il riferimento ai Manichei, intesi come setta ereticale cristiana, in questo contesto si spiega solamente con la comune persecuzione che maghi, astrologi e manichei subirono in età cristiana, e ritrovarlo all' interno della Collatio rafforza l' idea della mutuazione dal Teodosiano.


Proprio questo XV titulus è un ottimo esempio dello spirito assimilativo dell' opera. Vi si affronta l' argomento della legislazione sulle pratiche magiche nel mondo ebraico e in quello romano.

L' apertura è affidata a Deuteronomio 18.9-14, il brano fondamentale da cui sono state tratte le mitzvòt (i 613 precetti, tratti dalla Torah e costituenti il fulcro dell' ebraismo, sul cui rispetto si regola lo stile di vita dell' ebreo ortodosso) più importanti in materia.

A questo brano è affiancato un estratto dal settimo libro del De officio proconsolis di Ulpiano, politico e giurista romano vissuto a cavallo fra II e III secolo, di cui si cita il capitolo De mathematicis et vaticinatoribus.


«Coll. 15 De mathematicis, maleficis et Manichaeis:

1. Moyses dicit:

Non inveniatur in te qui lustret filium tuum aut filiam tuam, nec divinus apud quem sortes tollas: nec consentias venerariis inpostoribus, qui dicunt, quid conceptum habeat mulier, quoniam fabulae seductoriae sunt. Nec intendas prodigia, nec interroges mortuos. 2. Non inveniatur in te auguriator nec inspector avium nec maleficus aut incantator nec pythonem habens in ventrem nec haruspex nec interrogator mortuorum nec portenta inspiciens. 3. Omnia namque ista a domino deo tuo damnata sunt et qui fecerit haec. Propter has enim abominationes deus eradicabit Chaldeos a facie tua. 4. Tu autem perfectus eris ante dominum deum tuum: 5. gentes enim istae, quas tu possides, auguria et sortes et divinationes audiebant.


II Ulpianus libro VII de officio proconsulis sub titulo de mathematicis et vaticinatoribus: 1. Praterea interdictum est mathematicorum callida inpostura et obstinata persuasione. Nec hodie primum interdici eis placuit, sed vetus haec prohibitio est. Denique extat senatur consultum Pomponio et Rufo css. factum, quo cavetur, ut mathematicis Chaldaeis Ariolis et ceteris, qui simile inceptum fecerunt, aqua et igni intedicatur omniaque bona eorum publicentur, et si externarum gentium quis id fecerit, ut in eum animadvertatur. 2. Sed fuit quaesitum, utrum scientia huiusmodi hominum puniatur an exercitio et professio. Et quidem apud veteres dicebatur professionem eorum, non notitiam esse prohibitam: postea variatum. Nec dissimilandum est nonnumquam inrepsisse in usum, ut etiam profiterentur et publice se praeberent. Quod quidem magis per contumaciam et temeraritatem eorum factum est, qui visi erant vel consulere vel excercere, quam quod fuerat permissum. 3. Saepissime denique interdictum est fere ab omnibus principibus, ne quis omnino huiusmodi ineptiis se immisceret, et varie puniti sunt ii qui exercuerint, pro mensura scilicet consultationis. Nam qui de principis salute, capite puniti sunt vel qua alia poena graviore adfecti: enimvero si qui de sua suorumque, levius [...] inter hos habentur vaticinatores, quamquam ii quoque plectendi sunt, quoniam nonnumquam contra publicam quietem imperiumque populi Romani inprobandas artes exercent. 4. Extat denique decretum divi Pii ad Pacatum legatum provinciae Lugdunensis, cuius rescripti verba quia multa sunt, de fine eius ad locum haec pauca subieci. 5. Denique divus Marcus eum, qui motu Cassiano vaticinatus erat et multa quasi instinctu deorum dixerat, in insulam Syrum relegavit. 6. Et sane non debent inpune ferre huiusmodi homines, qui sub obtentu ex monito deorum quaedam vel enuntiant vel iactant vel scientes configunt. [...]»


Dalla comparazione fra le due legislazioni risulta evidente il parallelismo: come la Bibbia condanna maghi, stregoni, indovini, interpreti di presagi di qualunque genere, incantatori e necromanti, così la legislazione romana, a partire da un senatoconsulto del 17 dC, de mathematicis Chaldaeis Ariolis, poi ribadito in anni successivi, proibiva inizialmente la pratica delle arti divinatorie dei mathematici (gli astrologi), poi addirittura la loro conoscenza, interdiceva il ricorso ai vaticinatores (gli indovini) e puniva la richiesta di consulti sul principe con la morte dell' interrogante e dell' interrogato. Ulpiano fornisce anche il racconto di una punizione esemplare, da parte dell' imperatore Marco Aurelio, all' indovino che aveva predetto la rivolta di Avidio Cassio nel 175: a lui fu comminata la relegatio in insulam.

Importantissimo il riferimento finale alla costituzione dioclezianea del 302 De maleficis et manichaeis, rivolta in particolare alla provincia d' Africa, in cui, oltre ad apparire per la prima volta la distinzione fondamentale fra religio e superstitio, si ordina di mandare al rogo uomini e libri collegati con la inaudita et turpis atque ... infamis secta (qui maghi e manichei sono colpevoli in quanto portatori di sapienze differenti da quella ufficiale, sapienze "straniere" e misteriose che potevano essere causa di instabilità politica o movimenti sovversivi).


L' intento dell' autore è giunto ad una felice conclusione, o almeno così pare, ad una lettura superficiale. Un' analisi più attenta rivela particolari interessanti, quali il pesante rimaneggiamento della traduzione latina della Torah ebraica e i taciuti riferimenti alla legislazione romana di epoca pagana, del tutto tollerante verso le pratiche magiche, fino a quando non si impose, con Diocleziano, appunto, in primis e con Costantino poi, l' ideale di assolutismo teocratico che dal 313 riconosce nel Cristianesimo, figlio dell' intollerante Ebraismo, la sua ideologia.

La traduzione letterale del passo del Deuteronomio recita:


«Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini (toavòt) delle nazioni che vi abitano. Non si trovi in mezzo a te chi farà passare suo figlio o sua figlia attraverso il fuoco, chi fa sortilegi, chi fa l' indovino, il mago, l' incantatore, l' interrogatore di ov e di ideòni, il necromante, perchè è considerato abominevole dal Signore chiunque faccia queste cose, e proprio per queste abominazioni il Signore tuo Dio li scaccia da davanti a te. Dovrai essere integro con il Signore tuo Dio, perchè quelle genti che stai per scacciare danno ascolto agli indovini e a coloro che fanno sortilegi, mentre a te il Signore tuo Dio non ha dato un simile destino.»


Individua cioè otto categorie di pratiche proibite, mentre il presunto corrispettivo latino ne contiene tredici, di cui sette hanno un riferimento diretto, tre esprimono un solo termine ebraico, una potrebbe riferirsi a ben tre differenti termini ebraici e due sembrano aggiunte di sana pianta. Tralasciando il fatto che l' inserimento per esempio delle figure degli àuguri e degli aruspici potrebbe essere dettato dall' esigenza di rendere più comprensibile ad un lettore romano la figura del meonèn, l' "indovino scrutatore di nuvole", una pratica di area orientale mai radicata in Occidente, o che il portenta inspiciens si può leggere come una figura comprensiva dell' indovino e del mago ebraici, ciò che stupisce è la citazione degli inpostores, qui dicunt, quid conceptum habeat mulier, gli "imbroglioni che rivelano quali pensieri ha tua moglie" e del pythonem habens in ventrem, "colui che ha un serpente nel ventre", forse un modo di tradurre l' ἐγγαστρίμυϑος dell' edizione dei LXX, (si pensava infatti che i vaticinanti dessero voce a degli spiriti nascosti nelle loro viscere) o un' eco della formula qui pythonem consulat della Vulgata. A ogni modo, a parte le incongruenze testuali, si presentano con particolare evidenza le influenze della Septuaginta e della Vulgata, confermata anche dalla formula qui lustret (illuminare? purificare?) filium tuum aut filiam tuam, del tutto priva di senso se non confrontata con la versione di Girolamo, che recita qui lustret filium suum, aut filiam, ducens per ignem.

Notevole risulta anche il riferimento ai Caldei, inserito con l' unico scopo di creare un parallelo diretto con il testo di Ulpiano; come là, anche in questo contesto con Caldei ci si riferisce non tanto alla popolazione semitica stanziata in bassa Mesopotamia, ma agli astrologi per antonomasia, data la fama che questo popolo aveva raggiunto nel campo della divinazione tramite l' osservazione delle stelle.

L' interpretazione espansiva del testo sacro al fine di sottolinearne la maggiore universalità è un processo tipicamente giudaico, ma sembra complicato, di fronte ad un rimaneggiamento che sa di vero e proprio "falso", giustificare l' intervento mantenendosi all' interno dell' ortodossia ebraica, tenendo anche conto del fatto che fin da quando cominciò a manifestarsi la tendenza, dettata da necessità pratiche, di avere traduzioni della Bibbia in greco e in latino, vi furono numerosi gruppi di resistenza a tali modernizzazioni. L' ebreo autore della Collatio giustifica il proprio comportamento eterodosso con il fine stesso della sua opera: mostrare la compatibilità fra ciò che viene considerato vietato in Israele e ciò che viene considerato vietato a Roma.


Dunque, osservando attentamente, si scopre che in questo caso Ebrei e Roma fanno capo a due dimensioni culturali differenti.

Era naturale che nel mondo ebraico, in cui l' appartenenza del popolo al suo Dio è totalizzante ed esclusiva, si rifiutasse tutto ciò che rimandava ad altre manifestazioni sovrannaturali del divino: da Dio scaturisce ogni cosa, solo lui conosce il futuro e decide se rivelarlo o meno agli uomini, ma sempre in parte, attraverso le figure dei profeti, soltanto la potenza divina permette prodigi e miracoli; praticare arti, come la magia, la divinazione e l' astrologia, che non abbiano come interlocutore Dio comporta l' infrazione del primo precetto noachide (considerati, questi, vincolanti per tutta l' umanità) che vieta l' idolatria. A ogni modo, l' insistenza con cui si ritorna a ribadire questi concetti, fa pensare ad una loro diffusione non indifferente: fra le 613 mitzvòt, ben 11 sono dedicate alla repressione di tali forme di culti deviati.

Nello specifico, si condannano personaggi (i personaggi, non le attività in sè) le cui attività sono vietate in quanto "inquinano" l' intero popolo di Israele, rendendolo impuro agli occhi del Signore: per questo motivo, nonostante un altro precetto noachide, l' ultimo, preveda l' istituzione di tribunali per giudicare gli accusati, in questi casi non si prevede un processo, ma una condanna certa (emessa dal tribunale, però!) alla morte tramite lapidazione, destinata altrove a categorie "maledette" come assassini, ladri, adulteri. Portando alcuni esempi, in Esodo 22.17, «non lascerai vivere la strega» indica evidentemente un atto purificatorio, e la categoria "strega" è espressa al femminile, singolarmente ma non stranamente, non tanto perchè ad essere punita doveva essere solo la donna che praticasse la magia, quanto perchè vi si riflette una mentalità arcaica per cui al genere femminile doveva essere interdetta qualsiasi attività di culto o sacerdotale; oppure, in Levitico 19.26 e 19.31, si condannano, a così poca distanza, gli indovini, gli stregoni, gli ovòt e gli ideonìm (probabilmente, categorie di necromanti): "se uomo o donna, in mezzo a voi, eserciteranno la necromanzia o la divinazione, dovranno essere messi a morte; saranno lapidati e il loro sangue ricadrà su di essi" (Levitico 20.27). Che si sia tentato di interpretare questi passi in maniera attenuata è questione successiva, risalente a quando il diritto ebreo dovette inserirsi entro i limiti del diritto del paese in cui gli Ebrei si trovavano ad amministrare la loro giustizia. Per quanto riguarda poi il già citato brano del Deuteronomio, da cui si ricavano ben 6 distinte mitzvòt, vi appaiono il solito stregone, indovino, indagatore del futuro, mago, incantatore e necromante, ma si fa riferimento anche a colui che «farà passare suo figlio o sua figlia attraverso il fuoco», comprendendo tutti quei culti del Vicino Oriente antico che prevedevano sacrifici di fanciulli (spesso, il primogenito), o prove ordaliche, nel fuoco, come per esempio avveniva nei rituali tributati all' idolo Moloch (cfr. Levitico 18.21, da cui è tratta la settima mitzvà negativa, ma anche Levitico 20.2).

Nel mondo pagano di Roma la divinazione aveva invece assunto, fin dalle origini, un' importanza fondamentale: basti ricordare che Romolo diventò re in base ad una gara di ornitomanzia e che rilevanti personalità storiche non esitarono a fare ricorso a pratiche divinatorie per prendere decisioni vitali, senza contare il fatto che storici come Livio fecero precedere prodigia ad ogni evento fondante della storia di Roma. L' assenza di un' unica forma di culto portava alla tolleranza degli altri culti, entro cui rientravano anche le pratiche magiche. Quello che è testimoniato dalle fonti documentarie e letterarie è la proibizione della magia cosiddetta "nera", atta cioè a danneggiare il prossimo negli averi o nella salute (importantissimo è il riferimento al malum carmen all' interno della XII Tavole, risalenti al 450-451 aC e contenenti l' unica legislazione scritta di età repubblicana); in età imperiale non si potevano richiedere vaticini de salute principis, pena la condanna a morte, ma ancora Apuleio, nel 160 dC, poteva esaltare la nobiltà del mestiere del mago, dalle antiche e sacre tradizioni, pur confutando l' accusa di essere lui stesso un frequentatore della magia nera. Quando Cicerone, nel De divinatione, mostra di nutrire dubbi sull' affidabilità di tali pratiche (eliminarle perchè false o mantenerle per rispetto alla tradizione e come mezzo di controllo politico?), siamo già in un periodo di crisi in cui la spiritualità pagana non riesce più a soddisfare le esigenze degli individui e l' introduzione di culti orientali aprono la strada all' accoglienza, seppur difficoltosa, che avrà il Cristianesimo. Una legge del 294 di Diocleziano colpisce i mathematici; la già citata costituzione del 302 colpisce malefici e Manichaei, portatori di nuovi culti orientali bollati come empi e corrotti.

Ovviamente, è dopo il 313 che la repressione di magia, stregoneria e divinazione si inasprisce, oggetto di una campagna di persecuzione che le accomunava alla religione pagana e alle eresie nate in seno al Cristianesimo stesso. Mantenendo in questo i tratti dell' Ebraismo, il Cristianesimo pretende che ci sia un' unica via di dialogo con la divinità, e che questa via sia attraverso la Chiesa, la sola capace di interpretare i segni divini e di rivelare il futuro; me se nelle alte sfere ecclesiastiche queste pratiche vengono condannate, esse sopravvivono a livello popolare, tramite una risemantizzazione in senso cristiano della loro idea fondante: si ha così, per esempio, il passaggio dal sistema divinatorio delle Sortes Homericae (o Virgilianae), consistente nel "pescaggio" di una frase all' interno dei testi di Omero o di Virgilio per rispondere a domande riguardanti il futuro, a quello delle Sortes Biblicae.

Comunque, la legislazione volta alla repressione di queste ritualità incrementa grandemente a partire dal IV secolo. Si può citare il canone 24 del concilio di Ancyra (414), in cui si condannavano i cristiani che predicessero l' avvenire, ma anche le tre costituzioni costantiniane, in cui si vieta la pratica dell' aruspicina in luoghi che non siano pubblici, onde evitare che si chiedano responsi politici, ma si invita alla consultazione degli aruspici stessi nel caso specifico in cui un fulmine cada su un palazzo pubblico; nel 321 Costantino però promulgherà una legge che vieterà di fare ricorso a qualsiasi pratica magica, colpevoli di compromettere la pudicitia delle anime.

La chiusa della legge di Costanzo, «sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas», inaugura una serie di provvedimenti contro le categorie degli haruspices, augures, vates, Chaldaei e magi che si ritrovano ribaditi negli anni successivi con Valentiniano, Valente, Graziano, Teodosio, Arcadio; di questi ultimi è la volontà di espellere tutti gli astrologi, nel 406, ma anche la legge De malefica ars (389) volta a impedire che l' accusa di essere un maleficus potesse diventare un' arma da usare contro i nemici politici: si vieta di procedere privatamente alla soppressione del presunto mago, senza averlo prima sottoposto a processo.


Risulta evidente perciò, dall’ analisi di questo capitolo della Collatio in particolare, che la situazione di tensione del V secolo doveva portare con sè intense esigenze di trovare una base di dialogo, che se forse era impossibile sul piano religioso e culturale, era pur sempre proponibile nel campo del diritto, quello stesso campo in cui Roma godeva della più grande fama. Volendo concedere un tocco “romantico” alla vicenda, si può pure immaginare una situazione tanto difficoltosa da spingere un ebreo a sentire come necessaria alla sopravvivenza del proprio popolo una altrimenti eretica modifica al testo del libro sacro e l’ insistenza sulla vicinanza del mondo giudaico alle leggi romane ispirate al Cristianesimo, da sempre rivale dell’ Ebraismo ma per molte cose a lui affine.


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Bibliografia:

- Francesco Lucrezi, Magia, stregoneria e divinazione in diritto ebraico e romano. Studi sulla Collatio IV, Giappichelli editore, Torino 2007

- Steven T. Katz, The Cambridge history of Judaism (volume IV: the late roman-rabbinic period), Cambridge University Press 2006

- La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 2007 (editio princeps 1971)


lunedì 28 giugno 2010

Le Caste. Breve saggio sulle divisioni sociali nella cultura hindū

Il mito giustificatore.

Se volessimo, per una qualsiasi ragione, legittimare un’usanza sociale, il metodo più immediato ed efficace sarebbe sicuramente quello di far ritenere al più delle persone costrette a sottostare a tale usanza, che questa esista da sempre e che la propria condizione sociale sia nell’ordine naturale delle cose.Questo è esattamente ciò che fece l’elite brāhmaņica attraverso la creazione (e, talvolta, in seguito, distorsione) di miti cosmo-sociogonici. Creò una netta divisione sociale in quattro classi e, con il corso del tempo, riuscì ad accentuarla tanto da far in modo di creare un sistema di caste, assolutamente chiuse, basato sul diritto di nascita (jāti) e sul mantenimento del lavoro dei padri.Il primo mito da prendere in esame è obbligatoriamente quello fondante della divisione sociale hindū, cioè quello detto “puruşasūkta”, che si trova nel X libro del “Ŗgveda”.Esso possiede i tratti caratterizzanti del più dei miti cosmogonici: inizialmente c’era il caos, non c’era distinzione tra essere e non-essere, poi, attraverso il sacrificio (lo smembramento) del Puruşa, giunse l’ordine. E proprio dallo smembramento del Puruşa si generò il mondo e la razza umana; ma gli uomini nacquero da parti diverse del corpo del Puruşa e perciò furono diversi: dalla bocca nacque il brāhmaņa (il conoscitore della fonte), dalle braccia il rājanya (il guerriero), dalle cosce il vaiśya (l’artigiano) ed infine dai piedi il śūdra (il servo).Già in tal modo la classe dirigente brāhmaņica creava una divisione sociale importante, che però non era sufficiente. I śūdra pur derivando dai piedi del Puruşa, erano comunque, in origine, parte dello stesso organismo che aveva generato i brāhmaņa e i rājanya, erano, per così dire, ancora troppo “vicini” alle classi sociali più elevate.È evidente come lo scopo di questo mito fosse, oltre che dividere la società in classi ben distinte, quello di assegnare ad ognuna di queste classi un compito differente all’interno della vita sociale. Perciò ai brāhmaņa, nati dalla bocca (in posizione elevata), spettarono i compiti sacrali ed amministrativi, ai rājanya, nati dalle braccia (le membra più alte, simbolo di forza), spettò il compito della difesa militare, ai vaiśya, nati dalle cosce (membra intermedie), spettarono i lavori manuali che richiedevano, però, più attenzione e abilità ed ai śūdra, nati dai piedi (quindi nella condizione più bassa possibile), spettarono i lavori manuali più infimi. Potrebbe essere interessante un parallelismo tra questo mito ed il discorso tenuto da Menenio Agrippa durante la secessione dell’Aventino (493 a.C.), quando il senatore romano per convincere i plebei a tornare ad occuparsi del proprio lavoro, paragonò la loro classe sociale alle membra, e quella dirigente allo stomaco e li convinse che senza il lavoro congiunto delle due classi il “corpo” metafora dello stato sarebbe perito.Inoltre la necessità di legittimare l’importanza del ruolo sociale della classe dei rājanya compare chiaramente dal mito del vŗtrahátya: Indra, guerriero per antonomasia, archetipo del rājanya, si trova a dover abbattere Vŗtra (la chiusura, il blocco) che impedisce alle acque cosmiche di defluire e dare il via alla creazione.Dopo aver “creato” le basi ataviche della disuguaglianza è però necessario rafforzarla attraverso la quotidianità: il mezzo per fare ciò sono le norme giuridiche.

Il Mānavadharmaśāstra: la disuguaglianza nel diritto.

Il Mānavadharmaśāstra fa parte di quella corrente di testi giuridici detta dharmaśāstra che mira ad approfondire le linea base del discorso normativo presente in quei testi che vanno sotto il nome di dharmasūtra. La produzione dei testi che possono rientrare sotto la classificazione dharmaśāstra va più o meno dal 200/150 a.C. al 500/600 d.C.Il Mānavadharmaśāstra descrive per prescrivere: quindi nell’ambito che più ci interessa, quello delle distinzioni sociali, appare evidente come descriva l’inferiorità di una determinata casta sociale (chiaramente quella dei śūdra), per esortare gli esponenti delle classi maggiori a trattare costoro in maniera consona, cioè da inferiori.Quest’opera denigratoria si svolge in tre fasi fondamentali: la “distinzione”, il “disprezzo” e l’“esclusione”. Durante l’opera di “distinzione” l’autore del Mānavadharmaśāstra, identifica la positività della vita sociale di uno studente vedico come direttamente proporzionale alla distanza che egli saprà tenere tra sé e le classi che sono causa del degrado sociale.
Inoltre distingue le varie varņa (classi sociali) e prescrive loro compiti differenti (quelli tramandati dalla tradizione, come abbiamo visto nel paragrafo precedente).
Dopo aver distinto tra classi “positive” e classi “negative” è necessario specificare il perché quest’ultime sono identificate così. In tal modo si rafforzeranno le gerarchie preesistenti e si darà lustro (almeno secondo l’autore) all’elite brāhmaņica. Questa è la fase del “disprezzo”.
Il pericolo più grande era infatti identificato con gli eretici ed i denigratori del Veda, cioè coloro che mettendo in dubbio la veridicità delle tradizioni avrebbero potuto soverchiare lo status quo.Il modo più efficace per distinguere i “buoni” dai “cattivi” è quello di prescrivere ciò che è bene da ciò che è male, parafrasando Squarcini, è necessario identificare gli atti per distinguere gli attori.
Ma una volta identificati e distinti gli “indegni”, gli “intoccabili”, come agire? Come fare in modo che non contaminino, non danneggino, le societa? Quale è la soluzione?
Il Mānavadharmaśāstra la trova, quand’è possibile, nell’ “esclusione” altrimenti nella “marginalizzazione”. Evidentemente l’esclusione dalla vita sociale dei śūdra non era assolutamente possibile (come già detto nel parallelismo del capitolo precedente lo “stomaco” senza membra perirebbe). Perciò e necessario porli a margine della società, impedendogli di partecipare ai riti sacri, vietando categoricamente i matrimoni misti, escludendoli dai luoghi in cui si svolge la recitazione del Veda, trattandoli in maniera crudele, tanto che si giunge ad affermare che possono essere esclusi o addirittura uccisi a piacere. L’ultimo timore dell’autore è che i śūdra acquistino potere e perciò intima al sovrano di non permetter loro di accumulare denaro e proprietà e di mantenerli sempre in condizione servile.In tal modo la divisione in caste è sopravvissuta in India fino alla seconda metà del secolo scorso.

La liberazione attraverso la conversione.

Nei due precedenti paragrafi abbiamo visto, come creare e come legittimare una disuguaglianza sociale. In questo vedremo come uscirne.
Nel farlo, analizzeremo il pensiero di due illustri personaggi storici indiani: Bimrao Ramji Ambedkar e Mohandas Karamchand Gandhi. La diatriba tra Ambedkar e Gandhi nacque a seguito di un censimento compiuto dai dominatori inglesi all’inizio del secolo scorso. Essi si trovarono infatti a dover determinare l’appartenenza religiosa di ogni individuo presente sul suolo indiano. Una cosa simile era già avvenuta negli anni settanta del ‘700, ed aveva dato vita alla distinzione giuridica tra “Muslim Law” ed “Hindu Law”, a seguito di tale distinzione, chi non si fosse dichiarato musulmano sarebbe finto automaticamente nel gruppo “hindū”. Fu così che un’enorme varietà di fedi religiose (alcune delle quali completamente differenti l’una dall’altra) divennero,in un tempo straordinariamente breve, un’unica grande religione. Quando, come abbiamo già detto, agli inizi del secolo scorso, gli inglesi bandirono un censimento, Ambedkar proclamò che la classe degli intoccabili, che egli rappresentava, non era da considerarsi hindū e che meritava, come i musulmani d’altronde, un elettorato separato, in vista delle elezioni per la nomina degli organi rappresentativi della popolazione indigena.
A lui rispose Gandhi, affermando che gli intoccabili dovevano si essere rispettati di più, e non oppressi, ma che il sistema delle caste (nella sua forma originale) andava preservato, poiché parte integrante della tradizione indiana. Perciò iniziò a definire gli intoccabili harjian (figli di dio), ma disse anche che l’ereditarietà dei mestieri andava preservata a tutti i costi.Ambedkar considerò le affermazioni di Gandhi come una irrisione, egli affermava di non voler essere il figlio di quel dio che aveva permesso l’oppressione della sua classe sociale per secoli. Inoltre riteneva assurdo che, secondo il pensiero di Gandhi, ad un intoccabile venisse permesso di studiare ma non di praticare il lavoro per cui aveva studiato.
Inizialmente il governo britannico accolse le istanze di Ambedkar, e creò un elettorato separato per gli intoccabili. A ciò, però, Gandhi rispose con un digiuno, che, quasi sicuramente, l’avrebbe portato alla morte. Ambedkar non poteva di certo rischiare le ritorsioni che i seguaci di Gandhi avrebbero fatto ricadere sulla sua gente e perciò accettò quello che venne definito il “patto di Puna”, in cui si stabiliva che gli intoccabili sarebbero potuti essere eletti, ma solo da un elettorato misto. Fu così che Ambedkar capì che, se avesse voluto liberare la propria classe dal giogo di quelle superiori, era necessario che gli intoccabili si convertissero in massa. Iniziò in perciò ad avere colloqui con esponenti delle religioni maggiori. Dopo lunghi anni giunse alla conclusione che il Buddhismo, con le sue caratteristiche egualitarie, era quella più adatta. Inoltre, essendo il Buddha nato in India, Ambekdar, poté presentare questa conversione come un ritorno alle origini, alla vera religione del suo popolo.
Fu così che, il 15 ottobre 1956, a Nagpur, cinquecentomila intoccabili si convertirono al buddhismo.
Ambekdar morì poco tempo dopo, attraverso la conversione religiosa riuscì a liberare la sua classe sociale dalla schiavitù.


Stefano P.

Il purushasukta, qui;
informazioni su Ambedkar, qui.

venerdì 4 giugno 2010

Quando la pubblicità diventa leggenda: Nike VS Adidas

Il mondo della pubblicità ha sempre profondamente diviso chiunque si è approcciato allo studio della materia. Da un lato, ci troviamo di fronte ad una forma di comunicazione finalizzata alla conquista del pubblico, alla sua seduzione, perfino al suo totale controllo secondo le letture più pessimiste. Dall’altro, in alcuni casi, abbiamo sotto agli occhi delle vere e proprie opere d’arte, forme espressive complete e mature, degne di essere paragonate a film e cortometraggi. Per prendere atto di questa doppia anima basta guardare una qualsiasi interruzione pubblicitaria in tv: vedremo alternarsi sullo schermo pacchianate senza senso e piccoli capolavori d’inventiva, filmati senza capo né coda e vere e proprie narrazioni in movimento, patetici spot a base di insulsi testimoniali e video capaci di emozionare. Purtroppo – vuoi per le imperscrutabili logiche del marketing, vuoi per lo scarso impegno di chi le pubblicità le concepisce – il gruppo che sembra maggioritario è anche quello artisticamente meno rilevante: il che, ovviamente, non va a beneficio dell’immagine di questa particolare (e moderna) forma comunicativa.
Se però dovessi citare i nomi di un paio di aziende che, stando a quanto mi ricordo, si sono sempre contraddistinte per la qualità dei loro spot, direi Nike ed Adidas. I due colossi dell’abbigliamento sportivo hanno dato vita negli ultimi anni a una vera e propria battaglia commerciale: essendo i due competitors più rilevanti all’interno del loro particolare settore, ben presto questa sfida si è estesa a tutti i terreni possibili; pubblicità in primis. Tutto ciò ha finito col dare vita a una serie di stereotipi e temi ricorrenti, che sta facendo scuola e ha creato una vera e propria sub-cultura. Proviamo a tracciarne i tratti fondamentali, partendo dall’ultimo arrivato.

Da un paio di settimane circola sul web (e in tv, ma in versione ridotta) il nuovo spot della Nike. Intitolato Write the future, si tratta di fatto di un piccolo cortometraggio: un video della durata di tre minuti circa, incentrato sulle vicende di cinque calciatori e corredato da un comparto tecnico di tutto rispetto. L’idea alla base dello spot è molto semplice: durante una partita (ma in realtà durante diverse partite) alcuni celebri giocatori di calcio – Drogba, Cannavaro, Rooney, Ronaldinho e Cristiano Ronaldo – immaginano come sarà il futuro in seguito al risultato della partita stessa, e assaporano quello che può essere il loro personale impatto sulla Storia. Lo spunto, all’apparenza non molto originale, è però geniale per il contesto nel quale viene realizzato: lo spot pubblicitario.
Nell’arco di tre minuti, i creativi assunti dalla Nike sono riusciti a calare perfettamente i protagonisti nella giusta atmosfera, illustrando con pochi, significativi e iperbolici flashforward quello che il futuro potrebbero loro riservare. E se la famigliola italiana che guarda Bobby Solo al Festival di Sanremo mentre aspetta che si cuocia la pasta, ai nostri occhi, può risultare fastidiosamente stereotipata, mi sembrano veramente geniali le sequenze che hanno per protagonista Rooney (dapprima costretto a vivere in una campo nomadi, poi, al volgere della fortuna, incoronato baronetto dalla regina e trionfatore in una partita di ping-pong contro il campione di tennis Federer ) o Ronaldo (cui viene intitolato uno stadio, fa una comparsata nei Simpsons e diventa ispirazione per un film con Gael García Bernal).
Il tutto con regia, montaggio e musica all’altezza della situazione, come se si trattasse di una produzione cinematografica: e la cosa appare ancora più sconcertante, se si pensa che la versione integrale del video sarà vista solo su Internet, essendo irriproducibile in un contesto frenetico come quello televisivo. Ovvio: produzioni del genere sono possibili solo con grandi budget (che si vedono tutti, tanto nei nomi coinvolti quanto nella spettacolarità delle scene). Ma, prima ancora, sono possibili solo se qualcuno le pensa. Quindi, complimenti all’agenzia che l’ha realizzata.

In ogni caso, questo spot mi sembra un esempio perfetto di quanto dicevo prima. A mio avviso, infatti, lo scontro pubblicitario fra Nike e Adidas ha avuto fra i suoi effetti quello di creare un humus comune a tutte le pubblicità di questo tipo. Nello specifico, ritengo che in definitiva siano emersi tre aspetti sopra tutti gli altri.
Il primo mi piace chiamarlo “epicità”, una parola con cui intendo diverse cose, non tutte necessariamente presenti nello stesso tempo, ma comunque strettamente correlate le una alle altre. Dovendo riassumerle in un elenco, mi limito ai concetti fondamentali: spettacolarità, conflittualità, e un pizzico di leggenda. In tal senso, le pubblicità in questione esaltano lo sport come il moderno tempio dell’epica. Ecco dunque che ogni incontro diventa una battaglia, i giocatori sono eroi dotati di caratteristiche sovraumane, ed ogni cosa è esagerata. Da parte sua, il comparto tecnico mette in campo tutti gli stereotipi stilistici del caso: la telecamera non sta ferma un attimo, il montaggio è incalzante, la musica (spesso sinfonie classiche) è adeguatamente spettacolare.
Il secondo rispecchia invece una dimensione più valoriale. Questa seconda tipologia di pubblicità non punta alla spettacolarizzazione dello sport, ma salta direttamente ai suoi valori ultimi, alle motivazioni e ai sentimenti che spingono gli atleti a lottare fino in fondo e ad andare oltre i limiti umani. Qui il rischio di inciampare nella retorica è molto alto, ma per questo motivo il risultato è anche più gratificante: realizzare una buona pubblicità, enfatizzando questo aspetto, è da veri artisti.
Il terzo è in un certo senso trasversale, dal momento che non forma proprio una categoria a sé: si tratta dell’ironia e della leggerezza. Può sembrare in contraddizione con i due concetti fin qui espressi, eppure il contrasto è solo apparente: ogni situazione è smorzata con una dose più o meno massiccia di ironia, in modo da far emergere quello che è l’aspetto propriamente ludico dello sport. Ecco dunque che, per quanto cruenti possano essere gli scontri di gioco, ci sarà sempre qualche elemento che porterà lo spettatore a farsi una risata, magari amara.
A mio parere – e almeno a giudicare dalla loro produzione recente – mi sembra che Nike abbia un certo vantaggio nella prima categoria, Adidas nella seconda, mentre la terza è quella che ancora non vede emergere nessuno dei due contendenti. Ma, visto che in questo caso le parole non contano molto, vediamo qualche esempio concreto.

Nike ha sempre puntato sul gran dispiego di talenti per i suoi spot; e spesso ha catapultato questi eroi dei nostri tempi in situazioni spettacolari e violente. Dal momento che in Europa il calcio va per la maggiore, di solito i protagonisti dei filmati sono proprio i calciatori.
Uno spot che rimanda immediatamente all’epica risale agli anni ’90, e vede alcuni dei più forti giocatori dell’epoca (l’Italia è rappresentata da un Malidini più capellone che mai) coalizzarsi contro un’armata di calciatori demoniaci e decisamente poco sportivi, in una partita decisiva giocata all’interno del Colosseo (!). Lo spot è quasi pacchiano, nonché vagamente inquietante, ma è abbastanza spettacolare e decisamente violento: rispecchia in pieno i canoni della proto-epica precedentemente richiamati.
Nel 2000, Nike puntò invece sulla fantascienza per lo spot The Mission. Un manipolo di calciatori (questa volta tocca a Totti difendere i nostri colori) viene assoldato per una pericolosa missione: recuperare un pallone da un palazzo difeso da un esercito di robot. Stavolta il tono è meno epico rispetto al passato, e si tende a valorizzare maggiormente le giocate spettacolari dei protagonisti; il che, tuttavia, non impedisce la realizzazione di una gratuita esplosione finale.
In tempi più recenti, per lo stesso filone, Nike ha proposto la campagna La gabbia. Ventiquattro calciatori si sfidano in un torneo senza esclusione di colpi, in cui vince semplicemente chi segna per primo. Anche qui grande spazio viene lasciato alle giocate, ma il tutto comincia ad essere stemperato da una gran dose di ironia (con i calciatori che sono i primi a prendersi in giro, e sembrano divertirsi da matti). Bella però la cura dell’ambientazione, una nave mercantile arrugginita e decadente, che contribuisce non poco all’atmosfera dello spot.
Infine, sempre da Nike, può essere iscritto a questa categoria anche il nuovissimo Write the future. Il tema è sempre lo stesso – lo scontro fra avversari, la spettacolarità delle immagini – e si può notare come l’azienda continui a puntare sull’ironia come adeguato complemento della componente epica.

Adidas, invece, sembra essersi specializzate nell’esaltazione dei valori sportivi. Spesso i suoi spot sono caratterizzati dalla voce fuori campo – totalmente assente in quelli della controparte – che recita battute molto forti sotto il profilo emotivo; ad affiancare l’audio ci sono immagini reali, spesso di repertorio, che testimoniano il lato più vero dello sport, e che sono ben lontane dalle giocate dei campioni Nike. Probabilmente, Adidas è avvantaggiata in questa categoria perché possiede lo slogan più immortale di tutti i tempi: “Impossible is nothing”. È una frase potentissima, adattabile a qualsiasi contesto e a qualsiasi sport, e soprattutto senza tempo: ci sarà sempre qualcuno che penserà una cosa del genere.
Ecco spiegato perché Adidas punta tutto sull’emotività. Come dimostrano due spot (qui e qui) incentrati sulla figura del leggendario pugile Muhammad Alì, che interagisce con altri campioni dello sport tramite fotomontaggi. Ma ancora di più lo testimoniano i tanti piccoli cortometraggi animati che raccontano le storie di altrettanti campioni dello sport: storie incredibili, ma tutte vere, che possono essere ricondotte allo storico slogan dell’azienda.

Certo, questa è più che altro una generalizzazione, che non ha alcuna pretesa esaustiva. Anche perché le eccezioni esistono, e sono sicuramente rilevanti. Il caso vuole, infatti, che quelle che giudico la migliore pubblicità “epica” e la migliore pubblicità “valoriale” siano in realtà dell’azienda opposta a quella che ha la leadership del settore. Quindi, nonostante Nike spadroneggi nella spettacolarizzazione, Adidas ha creato una pubblicità memorabile con questo spot epico di assoluta bellezza, in cui calciatori di tutte le latitudini si sfidano in una battaglia campale (con tanto di bandiere, feriti, barellieri, arpie, presenze inquietanti e citazione artistica nel ralenti finale). Viceversa, nonostante Adidas sia campione nel tirare fuori i sentimenti di tutti noi, Nike ha realizzato uno spot davvero emozionante in occasione dei giochi olimpici del 2008: intitolato Everything you need is already inside, è una raccolta di decine di frame di atleti di ogni disciplina, con una celebre canzone dei The Killers in sottofondo; qualcosa di unico ed emozionante, punto e basta.

Resta da svelare la terza categoria, quella che ho definito “dell’ironia”. Forse è un’espressione impropria, ma è esattamente quello che mi hanno trasmesso questi spot. Si tratta forse delle pubblicità in cui i creativi si sono sbizzarriti di più, creando filmati divertenti ma soprattutto originali. Citerò soltanto tre esempi, piuttosto recenti.
Un paio di anni fa, Nike propose una pubblicità televisiva molto innovativa nell’ambito della campagna Take it to the newxt level: il video mostrava l’intera carriera di un calciatore, dal campetto di periferia alla nazionale, passando per l’Arsenal. La cosa straordinaria era che il punto di vista era quello del calciatore stesso: nel senso che l’intero spot era girato in prima persona, come se gli occhi degli spettatori fossero quelli del protagonista.
Sempre da Nike, una pubblicità molto divertente è quella che mette in scena una partita tra Brasile e Portogallo. Prima ancora di scendere in campo, però, i due team cominceranno a darsi battaglia a suon di colpi di classe, mettendo a soqquadro l’intero stadio: fino a che un tackle dell’arbitro riporterà la calma sul terreno di gioco.
In tempi recenti, Adidas ha proposto lo spot Josè +10. Protagonisti sono due bambini ispanici che si apprestano a giocare una partitella in un cortile. Dopo il canonico pari o dispari, arriva il momento di scegliere i compagni di squadra: e i due cominceranno a chiamare al proprio fianco i grandi campioni del calcio mondiale. Assolutamente geniale.

Al di là dell’analisi e della veloce carrellata sugli spot di queste due grandi aziende, resta da chiarire un ultimo dettaglio. Non notate niente di strano in tutte queste pubblicità? Beh, qualcosa di anomalo c’è, e si trova in ogni singolo spot esaminato in queste righe. Quelle che abbiamo appena visto sono pubblicità: quindi ci si aspetterebbe – come minimo – che sponsorizzino un prodotto. E invece niente di niente. Certo, il logo Nike o Adidas è onnipresente e ben visibile su ogni indumento, eppure non c’è un prodotto che emerge sugli altri, un qualcosa da promuovere. O meglio, c’è ma non si vede.
Quello che questi spot pubblicizzano è il brand stesso, ovvero lo swoosh Nike e le tre bande Adidas. Non mirano a vendere un prodotto, ma soltanto a consolidare l’immagine dell’azienda. Forse queste campagne pubblicitarie sono uno degli esempi più lampanti di quello che la pubblicità è diventata oggi: non più (ma sarebbe più giusto dire: non soltanto) uno strumento per vendere, ma anche un modo per creare un atteggiamento positivo nei confronti della marca e del brand. Per usare dei paroloni e darsi un po’ un tono, possiamo affermare che queste pubblicità producono brand awarness. Il primo obiettivo resta sicuramente quello commerciale; ma sta prendendo piede sempre di più una dimensione suggestiva, con finalità diverse e più sottili.
Lasciando queste riflessioni agli uomini di marketing, noi comuni mortali possiamo consolarci con il meglio di questa produzione: ovvero una serie di spot memorabili, che nella loro diversità si sforzano di raccontare i molteplici aspetti dello sport odierno. Ognuno è libero di scegliere fra lo stile Nike e quello Adidas: questa competizione, in ultima analisi, fa bene soprattutto a noi spettatori.

Luigi
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