sabato 7 agosto 2010

Legge ebraica e legge dei Cesari: davvero così inconciliabili? Esigenze di tolleranza e tentativi di avvicinamento nella Roma del V secolo.

Quando Ebrei e Romani entrarono per la prima volta in contatto, al tempo della dominazione greco-siriana sulla Palestina, non vi furono ostilità. Anzi, nel primo libro dei Maccabei si dice che "il regno dei Greci riduceva Israele in schiavitù" (I, 8.18), mentre "nessuno dei Romani si è imposto il diadema e non vestono la porpora per fregiarsene" (I, 8.14). Ma già alla fine del regno di Erode il Grande (37 aC - 4 dC), quando la Giudea divenne provincia romana, cominciavano ad intravedersi i fermenti che avrebbero portato alla rottura, consumatasi tragicamente con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme ad opera delle legioni comandate da Tito Flavio Vespasiano (70 dC). Le differenze culturali fra il mondo romano e quello ebraico non potevano essere più profonde, e il divario continuò ad aumentare dopo che il Cristianesimo si impose come religione ufficiale dell' Impero, in conseguenza all' Editto di Tessalonica del 380.

Tra IV e V secolo la posizione dell' intera comunità ebraica era diventata materia di discussione. Leggi imperiali di questo periodo comportavano l' esclusione degli Ebrei da tutte le cariche civili del governo. In questi anni più e più volte le sinagoghe di Roma e di altre parti d' Italia furono distrutte o spogliate delle ricchezze che contenevano. Le tensioni fra comunità ebraica e comunità romana cristiana erano intense.

E' in questo clima che si inserisce la Collatio legum Mosaicarum et Romanarum o Lex Dei, un' opera strutturata come una comparazione fra la legge mosaica e legge romana con lo scopo di mostrare la non conflittualità dei due sistemi giuridici. L' intento è apologetico, quindi, e riprende l' antica ed annosa discussione sulla validità della legge mosaica, resa più attuale dal confronto con il mondo cristiano, che aveva prodotto nei suoi primi secoli di vita le lettere di Paolo, permeate da un' intensa preoccupazione esegetica.

L' opera, rinvenuta nel 1572 dal giurista ed editore Pietro Pithou a Parigi, benchè anonima, permette di ricavare alcune notizie sul suo autore (o autrice). Nonostante la tesi più seguita sia stata quella di un' origine latina dell' autore, negli ultimi anni si è rafforzata la sensazione che egli provenga dal mondo ebraico, non soltanto a causa dell' evidente padronanza della lingua ebraica, ma anche per la preponderante considerazione che mostra per i libri della Torah; che poi fosse un ebreo occidentale della diaspora è intuibile dalla scelta stessa dell' opera e del resto, mentre non era frequente che un Romano del V secolo, benché acculturato, conoscesse l' ebraico e riuscisse a tradurlo, era infinitamente più probabile che un ebreo di ceto medio-alto di una comunità italica, per esempio quella di Roma, parlasse correttamente e ad un livello elevato il latino. Personaggi come l' autore della Lex Dei testimoniano come per certi Ebrei fosse possibile accedere ai testi della tradizione legale, e non solo, romana, e padroneggiarli a tal punto da inserirli in un' opera concettuale da cui la tradizione culturale ebraica uscisse rafforzata, tra l' altro rispondendo agli attacchi verso la legge mosaica condotti dai Cristiani, le cui gerarchie ecclesiastiche miravano a sottrarre agli Ebrei anche il secolare diritto a vivere suis moribus come cittadini romani.

Nonostante l' elevato intento ideale, l' opera, nella sua realizzazione pratica, è di scarso valore: in ognuno dei sedici tituli, corrispondenti a sedici argomenti legali, ci si limita a citare un brano del Pentateuco tradotto in latino ed introdotto da locuzioni tipo Moyses dicit e ad affiancargli estratti dai cinque giuristi romani par excellence (quelli della legge del 426 c.d delle citazioni), Gaio, Modestino, Paolo, Ulpiano e Papiniano, concludendo talvolta con il riferimento ad alcune costituzioni imperiali. Non c'è nessun commento, nessun brano scritto di propria mano dall' autore.

Per quanto riguarda la cronologia, la mancanza di riferimenti alla legislazione costantiniana e degli altri imperatori cristiani potrebbe far pensare ad una redazione precedente all' età cristiana, ma sono molteplici gli aspetti che ci riconducono in età più tarda. Dall' analisi testuale risultano evidenti gli influssi della traduzione della Bibbia ad opera di Girolamo, completata nel 405, mentre la legge delle citazioni e due importanti costituzioni in materia successoria, che portarono grosse limitazioni a carico degli Ebrei, potrebbero essere lo spunto per la composizione dell' opera. Inoltre, la legge sull' omosessualità varata da Valentiniano, Teodosio I e Arcadio, citata in V.3, risale al 390.

Il Codex Theodosianus è una raccolta in sedici capitoli (cfr. i sedici tituli della Collatio) di costituzioni imperiali voluta da Teodosio II nel 438. Alcuni hanno liquidato frettolosamente l' annotazione idem in Theodosiano (sempre in V.3) come un' interpolazione, ma non necessariamente deve essere stata aggiunta molto tempo dopo nè le si può negare lo status di correzione marginale ad opera per esempio di un maestro di scuola. Inoltre, sembra innegabile la derivazione del XV titulus della Collatio De maleficis et mathematicis et Manichaeis da De maleficis et mathematicis et ceteris similibus del Teodosiano (ricorrente anche in De haereticis et manichaeis et samaritis del Codice Giustinianeo, datato però al 534): il riferimento ai Manichei, intesi come setta ereticale cristiana, in questo contesto si spiega solamente con la comune persecuzione che maghi, astrologi e manichei subirono in età cristiana, e ritrovarlo all' interno della Collatio rafforza l' idea della mutuazione dal Teodosiano.


Proprio questo XV titulus è un ottimo esempio dello spirito assimilativo dell' opera. Vi si affronta l' argomento della legislazione sulle pratiche magiche nel mondo ebraico e in quello romano.

L' apertura è affidata a Deuteronomio 18.9-14, il brano fondamentale da cui sono state tratte le mitzvòt (i 613 precetti, tratti dalla Torah e costituenti il fulcro dell' ebraismo, sul cui rispetto si regola lo stile di vita dell' ebreo ortodosso) più importanti in materia.

A questo brano è affiancato un estratto dal settimo libro del De officio proconsolis di Ulpiano, politico e giurista romano vissuto a cavallo fra II e III secolo, di cui si cita il capitolo De mathematicis et vaticinatoribus.


«Coll. 15 De mathematicis, maleficis et Manichaeis:

1. Moyses dicit:

Non inveniatur in te qui lustret filium tuum aut filiam tuam, nec divinus apud quem sortes tollas: nec consentias venerariis inpostoribus, qui dicunt, quid conceptum habeat mulier, quoniam fabulae seductoriae sunt. Nec intendas prodigia, nec interroges mortuos. 2. Non inveniatur in te auguriator nec inspector avium nec maleficus aut incantator nec pythonem habens in ventrem nec haruspex nec interrogator mortuorum nec portenta inspiciens. 3. Omnia namque ista a domino deo tuo damnata sunt et qui fecerit haec. Propter has enim abominationes deus eradicabit Chaldeos a facie tua. 4. Tu autem perfectus eris ante dominum deum tuum: 5. gentes enim istae, quas tu possides, auguria et sortes et divinationes audiebant.


II Ulpianus libro VII de officio proconsulis sub titulo de mathematicis et vaticinatoribus: 1. Praterea interdictum est mathematicorum callida inpostura et obstinata persuasione. Nec hodie primum interdici eis placuit, sed vetus haec prohibitio est. Denique extat senatur consultum Pomponio et Rufo css. factum, quo cavetur, ut mathematicis Chaldaeis Ariolis et ceteris, qui simile inceptum fecerunt, aqua et igni intedicatur omniaque bona eorum publicentur, et si externarum gentium quis id fecerit, ut in eum animadvertatur. 2. Sed fuit quaesitum, utrum scientia huiusmodi hominum puniatur an exercitio et professio. Et quidem apud veteres dicebatur professionem eorum, non notitiam esse prohibitam: postea variatum. Nec dissimilandum est nonnumquam inrepsisse in usum, ut etiam profiterentur et publice se praeberent. Quod quidem magis per contumaciam et temeraritatem eorum factum est, qui visi erant vel consulere vel excercere, quam quod fuerat permissum. 3. Saepissime denique interdictum est fere ab omnibus principibus, ne quis omnino huiusmodi ineptiis se immisceret, et varie puniti sunt ii qui exercuerint, pro mensura scilicet consultationis. Nam qui de principis salute, capite puniti sunt vel qua alia poena graviore adfecti: enimvero si qui de sua suorumque, levius [...] inter hos habentur vaticinatores, quamquam ii quoque plectendi sunt, quoniam nonnumquam contra publicam quietem imperiumque populi Romani inprobandas artes exercent. 4. Extat denique decretum divi Pii ad Pacatum legatum provinciae Lugdunensis, cuius rescripti verba quia multa sunt, de fine eius ad locum haec pauca subieci. 5. Denique divus Marcus eum, qui motu Cassiano vaticinatus erat et multa quasi instinctu deorum dixerat, in insulam Syrum relegavit. 6. Et sane non debent inpune ferre huiusmodi homines, qui sub obtentu ex monito deorum quaedam vel enuntiant vel iactant vel scientes configunt. [...]»


Dalla comparazione fra le due legislazioni risulta evidente il parallelismo: come la Bibbia condanna maghi, stregoni, indovini, interpreti di presagi di qualunque genere, incantatori e necromanti, così la legislazione romana, a partire da un senatoconsulto del 17 dC, de mathematicis Chaldaeis Ariolis, poi ribadito in anni successivi, proibiva inizialmente la pratica delle arti divinatorie dei mathematici (gli astrologi), poi addirittura la loro conoscenza, interdiceva il ricorso ai vaticinatores (gli indovini) e puniva la richiesta di consulti sul principe con la morte dell' interrogante e dell' interrogato. Ulpiano fornisce anche il racconto di una punizione esemplare, da parte dell' imperatore Marco Aurelio, all' indovino che aveva predetto la rivolta di Avidio Cassio nel 175: a lui fu comminata la relegatio in insulam.

Importantissimo il riferimento finale alla costituzione dioclezianea del 302 De maleficis et manichaeis, rivolta in particolare alla provincia d' Africa, in cui, oltre ad apparire per la prima volta la distinzione fondamentale fra religio e superstitio, si ordina di mandare al rogo uomini e libri collegati con la inaudita et turpis atque ... infamis secta (qui maghi e manichei sono colpevoli in quanto portatori di sapienze differenti da quella ufficiale, sapienze "straniere" e misteriose che potevano essere causa di instabilità politica o movimenti sovversivi).


L' intento dell' autore è giunto ad una felice conclusione, o almeno così pare, ad una lettura superficiale. Un' analisi più attenta rivela particolari interessanti, quali il pesante rimaneggiamento della traduzione latina della Torah ebraica e i taciuti riferimenti alla legislazione romana di epoca pagana, del tutto tollerante verso le pratiche magiche, fino a quando non si impose, con Diocleziano, appunto, in primis e con Costantino poi, l' ideale di assolutismo teocratico che dal 313 riconosce nel Cristianesimo, figlio dell' intollerante Ebraismo, la sua ideologia.

La traduzione letterale del passo del Deuteronomio recita:


«Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini (toavòt) delle nazioni che vi abitano. Non si trovi in mezzo a te chi farà passare suo figlio o sua figlia attraverso il fuoco, chi fa sortilegi, chi fa l' indovino, il mago, l' incantatore, l' interrogatore di ov e di ideòni, il necromante, perchè è considerato abominevole dal Signore chiunque faccia queste cose, e proprio per queste abominazioni il Signore tuo Dio li scaccia da davanti a te. Dovrai essere integro con il Signore tuo Dio, perchè quelle genti che stai per scacciare danno ascolto agli indovini e a coloro che fanno sortilegi, mentre a te il Signore tuo Dio non ha dato un simile destino.»


Individua cioè otto categorie di pratiche proibite, mentre il presunto corrispettivo latino ne contiene tredici, di cui sette hanno un riferimento diretto, tre esprimono un solo termine ebraico, una potrebbe riferirsi a ben tre differenti termini ebraici e due sembrano aggiunte di sana pianta. Tralasciando il fatto che l' inserimento per esempio delle figure degli àuguri e degli aruspici potrebbe essere dettato dall' esigenza di rendere più comprensibile ad un lettore romano la figura del meonèn, l' "indovino scrutatore di nuvole", una pratica di area orientale mai radicata in Occidente, o che il portenta inspiciens si può leggere come una figura comprensiva dell' indovino e del mago ebraici, ciò che stupisce è la citazione degli inpostores, qui dicunt, quid conceptum habeat mulier, gli "imbroglioni che rivelano quali pensieri ha tua moglie" e del pythonem habens in ventrem, "colui che ha un serpente nel ventre", forse un modo di tradurre l' ἐγγαστρίμυϑος dell' edizione dei LXX, (si pensava infatti che i vaticinanti dessero voce a degli spiriti nascosti nelle loro viscere) o un' eco della formula qui pythonem consulat della Vulgata. A ogni modo, a parte le incongruenze testuali, si presentano con particolare evidenza le influenze della Septuaginta e della Vulgata, confermata anche dalla formula qui lustret (illuminare? purificare?) filium tuum aut filiam tuam, del tutto priva di senso se non confrontata con la versione di Girolamo, che recita qui lustret filium suum, aut filiam, ducens per ignem.

Notevole risulta anche il riferimento ai Caldei, inserito con l' unico scopo di creare un parallelo diretto con il testo di Ulpiano; come là, anche in questo contesto con Caldei ci si riferisce non tanto alla popolazione semitica stanziata in bassa Mesopotamia, ma agli astrologi per antonomasia, data la fama che questo popolo aveva raggiunto nel campo della divinazione tramite l' osservazione delle stelle.

L' interpretazione espansiva del testo sacro al fine di sottolinearne la maggiore universalità è un processo tipicamente giudaico, ma sembra complicato, di fronte ad un rimaneggiamento che sa di vero e proprio "falso", giustificare l' intervento mantenendosi all' interno dell' ortodossia ebraica, tenendo anche conto del fatto che fin da quando cominciò a manifestarsi la tendenza, dettata da necessità pratiche, di avere traduzioni della Bibbia in greco e in latino, vi furono numerosi gruppi di resistenza a tali modernizzazioni. L' ebreo autore della Collatio giustifica il proprio comportamento eterodosso con il fine stesso della sua opera: mostrare la compatibilità fra ciò che viene considerato vietato in Israele e ciò che viene considerato vietato a Roma.


Dunque, osservando attentamente, si scopre che in questo caso Ebrei e Roma fanno capo a due dimensioni culturali differenti.

Era naturale che nel mondo ebraico, in cui l' appartenenza del popolo al suo Dio è totalizzante ed esclusiva, si rifiutasse tutto ciò che rimandava ad altre manifestazioni sovrannaturali del divino: da Dio scaturisce ogni cosa, solo lui conosce il futuro e decide se rivelarlo o meno agli uomini, ma sempre in parte, attraverso le figure dei profeti, soltanto la potenza divina permette prodigi e miracoli; praticare arti, come la magia, la divinazione e l' astrologia, che non abbiano come interlocutore Dio comporta l' infrazione del primo precetto noachide (considerati, questi, vincolanti per tutta l' umanità) che vieta l' idolatria. A ogni modo, l' insistenza con cui si ritorna a ribadire questi concetti, fa pensare ad una loro diffusione non indifferente: fra le 613 mitzvòt, ben 11 sono dedicate alla repressione di tali forme di culti deviati.

Nello specifico, si condannano personaggi (i personaggi, non le attività in sè) le cui attività sono vietate in quanto "inquinano" l' intero popolo di Israele, rendendolo impuro agli occhi del Signore: per questo motivo, nonostante un altro precetto noachide, l' ultimo, preveda l' istituzione di tribunali per giudicare gli accusati, in questi casi non si prevede un processo, ma una condanna certa (emessa dal tribunale, però!) alla morte tramite lapidazione, destinata altrove a categorie "maledette" come assassini, ladri, adulteri. Portando alcuni esempi, in Esodo 22.17, «non lascerai vivere la strega» indica evidentemente un atto purificatorio, e la categoria "strega" è espressa al femminile, singolarmente ma non stranamente, non tanto perchè ad essere punita doveva essere solo la donna che praticasse la magia, quanto perchè vi si riflette una mentalità arcaica per cui al genere femminile doveva essere interdetta qualsiasi attività di culto o sacerdotale; oppure, in Levitico 19.26 e 19.31, si condannano, a così poca distanza, gli indovini, gli stregoni, gli ovòt e gli ideonìm (probabilmente, categorie di necromanti): "se uomo o donna, in mezzo a voi, eserciteranno la necromanzia o la divinazione, dovranno essere messi a morte; saranno lapidati e il loro sangue ricadrà su di essi" (Levitico 20.27). Che si sia tentato di interpretare questi passi in maniera attenuata è questione successiva, risalente a quando il diritto ebreo dovette inserirsi entro i limiti del diritto del paese in cui gli Ebrei si trovavano ad amministrare la loro giustizia. Per quanto riguarda poi il già citato brano del Deuteronomio, da cui si ricavano ben 6 distinte mitzvòt, vi appaiono il solito stregone, indovino, indagatore del futuro, mago, incantatore e necromante, ma si fa riferimento anche a colui che «farà passare suo figlio o sua figlia attraverso il fuoco», comprendendo tutti quei culti del Vicino Oriente antico che prevedevano sacrifici di fanciulli (spesso, il primogenito), o prove ordaliche, nel fuoco, come per esempio avveniva nei rituali tributati all' idolo Moloch (cfr. Levitico 18.21, da cui è tratta la settima mitzvà negativa, ma anche Levitico 20.2).

Nel mondo pagano di Roma la divinazione aveva invece assunto, fin dalle origini, un' importanza fondamentale: basti ricordare che Romolo diventò re in base ad una gara di ornitomanzia e che rilevanti personalità storiche non esitarono a fare ricorso a pratiche divinatorie per prendere decisioni vitali, senza contare il fatto che storici come Livio fecero precedere prodigia ad ogni evento fondante della storia di Roma. L' assenza di un' unica forma di culto portava alla tolleranza degli altri culti, entro cui rientravano anche le pratiche magiche. Quello che è testimoniato dalle fonti documentarie e letterarie è la proibizione della magia cosiddetta "nera", atta cioè a danneggiare il prossimo negli averi o nella salute (importantissimo è il riferimento al malum carmen all' interno della XII Tavole, risalenti al 450-451 aC e contenenti l' unica legislazione scritta di età repubblicana); in età imperiale non si potevano richiedere vaticini de salute principis, pena la condanna a morte, ma ancora Apuleio, nel 160 dC, poteva esaltare la nobiltà del mestiere del mago, dalle antiche e sacre tradizioni, pur confutando l' accusa di essere lui stesso un frequentatore della magia nera. Quando Cicerone, nel De divinatione, mostra di nutrire dubbi sull' affidabilità di tali pratiche (eliminarle perchè false o mantenerle per rispetto alla tradizione e come mezzo di controllo politico?), siamo già in un periodo di crisi in cui la spiritualità pagana non riesce più a soddisfare le esigenze degli individui e l' introduzione di culti orientali aprono la strada all' accoglienza, seppur difficoltosa, che avrà il Cristianesimo. Una legge del 294 di Diocleziano colpisce i mathematici; la già citata costituzione del 302 colpisce malefici e Manichaei, portatori di nuovi culti orientali bollati come empi e corrotti.

Ovviamente, è dopo il 313 che la repressione di magia, stregoneria e divinazione si inasprisce, oggetto di una campagna di persecuzione che le accomunava alla religione pagana e alle eresie nate in seno al Cristianesimo stesso. Mantenendo in questo i tratti dell' Ebraismo, il Cristianesimo pretende che ci sia un' unica via di dialogo con la divinità, e che questa via sia attraverso la Chiesa, la sola capace di interpretare i segni divini e di rivelare il futuro; me se nelle alte sfere ecclesiastiche queste pratiche vengono condannate, esse sopravvivono a livello popolare, tramite una risemantizzazione in senso cristiano della loro idea fondante: si ha così, per esempio, il passaggio dal sistema divinatorio delle Sortes Homericae (o Virgilianae), consistente nel "pescaggio" di una frase all' interno dei testi di Omero o di Virgilio per rispondere a domande riguardanti il futuro, a quello delle Sortes Biblicae.

Comunque, la legislazione volta alla repressione di queste ritualità incrementa grandemente a partire dal IV secolo. Si può citare il canone 24 del concilio di Ancyra (414), in cui si condannavano i cristiani che predicessero l' avvenire, ma anche le tre costituzioni costantiniane, in cui si vieta la pratica dell' aruspicina in luoghi che non siano pubblici, onde evitare che si chiedano responsi politici, ma si invita alla consultazione degli aruspici stessi nel caso specifico in cui un fulmine cada su un palazzo pubblico; nel 321 Costantino però promulgherà una legge che vieterà di fare ricorso a qualsiasi pratica magica, colpevoli di compromettere la pudicitia delle anime.

La chiusa della legge di Costanzo, «sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas», inaugura una serie di provvedimenti contro le categorie degli haruspices, augures, vates, Chaldaei e magi che si ritrovano ribaditi negli anni successivi con Valentiniano, Valente, Graziano, Teodosio, Arcadio; di questi ultimi è la volontà di espellere tutti gli astrologi, nel 406, ma anche la legge De malefica ars (389) volta a impedire che l' accusa di essere un maleficus potesse diventare un' arma da usare contro i nemici politici: si vieta di procedere privatamente alla soppressione del presunto mago, senza averlo prima sottoposto a processo.


Risulta evidente perciò, dall’ analisi di questo capitolo della Collatio in particolare, che la situazione di tensione del V secolo doveva portare con sè intense esigenze di trovare una base di dialogo, che se forse era impossibile sul piano religioso e culturale, era pur sempre proponibile nel campo del diritto, quello stesso campo in cui Roma godeva della più grande fama. Volendo concedere un tocco “romantico” alla vicenda, si può pure immaginare una situazione tanto difficoltosa da spingere un ebreo a sentire come necessaria alla sopravvivenza del proprio popolo una altrimenti eretica modifica al testo del libro sacro e l’ insistenza sulla vicinanza del mondo giudaico alle leggi romane ispirate al Cristianesimo, da sempre rivale dell’ Ebraismo ma per molte cose a lui affine.


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Bibliografia:

- Francesco Lucrezi, Magia, stregoneria e divinazione in diritto ebraico e romano. Studi sulla Collatio IV, Giappichelli editore, Torino 2007

- Steven T. Katz, The Cambridge history of Judaism (volume IV: the late roman-rabbinic period), Cambridge University Press 2006

- La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 2007 (editio princeps 1971)


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