lunedì 28 giugno 2010

Le Caste. Breve saggio sulle divisioni sociali nella cultura hindū

Il mito giustificatore.

Se volessimo, per una qualsiasi ragione, legittimare un’usanza sociale, il metodo più immediato ed efficace sarebbe sicuramente quello di far ritenere al più delle persone costrette a sottostare a tale usanza, che questa esista da sempre e che la propria condizione sociale sia nell’ordine naturale delle cose.Questo è esattamente ciò che fece l’elite brāhmaņica attraverso la creazione (e, talvolta, in seguito, distorsione) di miti cosmo-sociogonici. Creò una netta divisione sociale in quattro classi e, con il corso del tempo, riuscì ad accentuarla tanto da far in modo di creare un sistema di caste, assolutamente chiuse, basato sul diritto di nascita (jāti) e sul mantenimento del lavoro dei padri.Il primo mito da prendere in esame è obbligatoriamente quello fondante della divisione sociale hindū, cioè quello detto “puruşasūkta”, che si trova nel X libro del “Ŗgveda”.Esso possiede i tratti caratterizzanti del più dei miti cosmogonici: inizialmente c’era il caos, non c’era distinzione tra essere e non-essere, poi, attraverso il sacrificio (lo smembramento) del Puruşa, giunse l’ordine. E proprio dallo smembramento del Puruşa si generò il mondo e la razza umana; ma gli uomini nacquero da parti diverse del corpo del Puruşa e perciò furono diversi: dalla bocca nacque il brāhmaņa (il conoscitore della fonte), dalle braccia il rājanya (il guerriero), dalle cosce il vaiśya (l’artigiano) ed infine dai piedi il śūdra (il servo).Già in tal modo la classe dirigente brāhmaņica creava una divisione sociale importante, che però non era sufficiente. I śūdra pur derivando dai piedi del Puruşa, erano comunque, in origine, parte dello stesso organismo che aveva generato i brāhmaņa e i rājanya, erano, per così dire, ancora troppo “vicini” alle classi sociali più elevate.È evidente come lo scopo di questo mito fosse, oltre che dividere la società in classi ben distinte, quello di assegnare ad ognuna di queste classi un compito differente all’interno della vita sociale. Perciò ai brāhmaņa, nati dalla bocca (in posizione elevata), spettarono i compiti sacrali ed amministrativi, ai rājanya, nati dalle braccia (le membra più alte, simbolo di forza), spettò il compito della difesa militare, ai vaiśya, nati dalle cosce (membra intermedie), spettarono i lavori manuali che richiedevano, però, più attenzione e abilità ed ai śūdra, nati dai piedi (quindi nella condizione più bassa possibile), spettarono i lavori manuali più infimi. Potrebbe essere interessante un parallelismo tra questo mito ed il discorso tenuto da Menenio Agrippa durante la secessione dell’Aventino (493 a.C.), quando il senatore romano per convincere i plebei a tornare ad occuparsi del proprio lavoro, paragonò la loro classe sociale alle membra, e quella dirigente allo stomaco e li convinse che senza il lavoro congiunto delle due classi il “corpo” metafora dello stato sarebbe perito.Inoltre la necessità di legittimare l’importanza del ruolo sociale della classe dei rājanya compare chiaramente dal mito del vŗtrahátya: Indra, guerriero per antonomasia, archetipo del rājanya, si trova a dover abbattere Vŗtra (la chiusura, il blocco) che impedisce alle acque cosmiche di defluire e dare il via alla creazione.Dopo aver “creato” le basi ataviche della disuguaglianza è però necessario rafforzarla attraverso la quotidianità: il mezzo per fare ciò sono le norme giuridiche.

Il Mānavadharmaśāstra: la disuguaglianza nel diritto.

Il Mānavadharmaśāstra fa parte di quella corrente di testi giuridici detta dharmaśāstra che mira ad approfondire le linea base del discorso normativo presente in quei testi che vanno sotto il nome di dharmasūtra. La produzione dei testi che possono rientrare sotto la classificazione dharmaśāstra va più o meno dal 200/150 a.C. al 500/600 d.C.Il Mānavadharmaśāstra descrive per prescrivere: quindi nell’ambito che più ci interessa, quello delle distinzioni sociali, appare evidente come descriva l’inferiorità di una determinata casta sociale (chiaramente quella dei śūdra), per esortare gli esponenti delle classi maggiori a trattare costoro in maniera consona, cioè da inferiori.Quest’opera denigratoria si svolge in tre fasi fondamentali: la “distinzione”, il “disprezzo” e l’“esclusione”. Durante l’opera di “distinzione” l’autore del Mānavadharmaśāstra, identifica la positività della vita sociale di uno studente vedico come direttamente proporzionale alla distanza che egli saprà tenere tra sé e le classi che sono causa del degrado sociale.
Inoltre distingue le varie varņa (classi sociali) e prescrive loro compiti differenti (quelli tramandati dalla tradizione, come abbiamo visto nel paragrafo precedente).
Dopo aver distinto tra classi “positive” e classi “negative” è necessario specificare il perché quest’ultime sono identificate così. In tal modo si rafforzeranno le gerarchie preesistenti e si darà lustro (almeno secondo l’autore) all’elite brāhmaņica. Questa è la fase del “disprezzo”.
Il pericolo più grande era infatti identificato con gli eretici ed i denigratori del Veda, cioè coloro che mettendo in dubbio la veridicità delle tradizioni avrebbero potuto soverchiare lo status quo.Il modo più efficace per distinguere i “buoni” dai “cattivi” è quello di prescrivere ciò che è bene da ciò che è male, parafrasando Squarcini, è necessario identificare gli atti per distinguere gli attori.
Ma una volta identificati e distinti gli “indegni”, gli “intoccabili”, come agire? Come fare in modo che non contaminino, non danneggino, le societa? Quale è la soluzione?
Il Mānavadharmaśāstra la trova, quand’è possibile, nell’ “esclusione” altrimenti nella “marginalizzazione”. Evidentemente l’esclusione dalla vita sociale dei śūdra non era assolutamente possibile (come già detto nel parallelismo del capitolo precedente lo “stomaco” senza membra perirebbe). Perciò e necessario porli a margine della società, impedendogli di partecipare ai riti sacri, vietando categoricamente i matrimoni misti, escludendoli dai luoghi in cui si svolge la recitazione del Veda, trattandoli in maniera crudele, tanto che si giunge ad affermare che possono essere esclusi o addirittura uccisi a piacere. L’ultimo timore dell’autore è che i śūdra acquistino potere e perciò intima al sovrano di non permetter loro di accumulare denaro e proprietà e di mantenerli sempre in condizione servile.In tal modo la divisione in caste è sopravvissuta in India fino alla seconda metà del secolo scorso.

La liberazione attraverso la conversione.

Nei due precedenti paragrafi abbiamo visto, come creare e come legittimare una disuguaglianza sociale. In questo vedremo come uscirne.
Nel farlo, analizzeremo il pensiero di due illustri personaggi storici indiani: Bimrao Ramji Ambedkar e Mohandas Karamchand Gandhi. La diatriba tra Ambedkar e Gandhi nacque a seguito di un censimento compiuto dai dominatori inglesi all’inizio del secolo scorso. Essi si trovarono infatti a dover determinare l’appartenenza religiosa di ogni individuo presente sul suolo indiano. Una cosa simile era già avvenuta negli anni settanta del ‘700, ed aveva dato vita alla distinzione giuridica tra “Muslim Law” ed “Hindu Law”, a seguito di tale distinzione, chi non si fosse dichiarato musulmano sarebbe finto automaticamente nel gruppo “hindū”. Fu così che un’enorme varietà di fedi religiose (alcune delle quali completamente differenti l’una dall’altra) divennero,in un tempo straordinariamente breve, un’unica grande religione. Quando, come abbiamo già detto, agli inizi del secolo scorso, gli inglesi bandirono un censimento, Ambedkar proclamò che la classe degli intoccabili, che egli rappresentava, non era da considerarsi hindū e che meritava, come i musulmani d’altronde, un elettorato separato, in vista delle elezioni per la nomina degli organi rappresentativi della popolazione indigena.
A lui rispose Gandhi, affermando che gli intoccabili dovevano si essere rispettati di più, e non oppressi, ma che il sistema delle caste (nella sua forma originale) andava preservato, poiché parte integrante della tradizione indiana. Perciò iniziò a definire gli intoccabili harjian (figli di dio), ma disse anche che l’ereditarietà dei mestieri andava preservata a tutti i costi.Ambedkar considerò le affermazioni di Gandhi come una irrisione, egli affermava di non voler essere il figlio di quel dio che aveva permesso l’oppressione della sua classe sociale per secoli. Inoltre riteneva assurdo che, secondo il pensiero di Gandhi, ad un intoccabile venisse permesso di studiare ma non di praticare il lavoro per cui aveva studiato.
Inizialmente il governo britannico accolse le istanze di Ambedkar, e creò un elettorato separato per gli intoccabili. A ciò, però, Gandhi rispose con un digiuno, che, quasi sicuramente, l’avrebbe portato alla morte. Ambedkar non poteva di certo rischiare le ritorsioni che i seguaci di Gandhi avrebbero fatto ricadere sulla sua gente e perciò accettò quello che venne definito il “patto di Puna”, in cui si stabiliva che gli intoccabili sarebbero potuti essere eletti, ma solo da un elettorato misto. Fu così che Ambedkar capì che, se avesse voluto liberare la propria classe dal giogo di quelle superiori, era necessario che gli intoccabili si convertissero in massa. Iniziò in perciò ad avere colloqui con esponenti delle religioni maggiori. Dopo lunghi anni giunse alla conclusione che il Buddhismo, con le sue caratteristiche egualitarie, era quella più adatta. Inoltre, essendo il Buddha nato in India, Ambekdar, poté presentare questa conversione come un ritorno alle origini, alla vera religione del suo popolo.
Fu così che, il 15 ottobre 1956, a Nagpur, cinquecentomila intoccabili si convertirono al buddhismo.
Ambekdar morì poco tempo dopo, attraverso la conversione religiosa riuscì a liberare la sua classe sociale dalla schiavitù.


Stefano P.

Il purushasukta, qui;
informazioni su Ambedkar, qui.

5 commenti:

  1. avevo scritto un commento lunghissimo e molto ispirato, ma sono stata ingiustamente censurata da questo blog che lo ha distrutto. :S

    riscriverlo daccapo sarebbe un dispendio di energie notevole, per cui cercherò di riassumere i punti salienti:

    Intro: è stato abbastanza difficile per me districarmi tra tutti questi nomi impronunciabili, ma alla fine sono riuscita a leggere tutto, fino all'ultima riga. Non conoscendo però le vicende storico-sociali di quella parte di mondo mi sarebbe impossibile scrivere qualcosa di sensato a riguardo. Per cui, sperando di non andare fuori traccia, scriverò un paio di impressioni che ho avuto sui temi trattati, ma applicati alla nostra Storia, più o meno recente.

    1) la metafora dello Stato come corpo composto da un insieme di più membra che devono convivere per far funzionare il tutto è il punto fondamentale della prima lettera di San Paolo ai Corinzi: l'idea che ne deriva è che ogni uomo è diverso da un altro, ma non per questo si può stabilire chi sia gerarchicamente superiore a chi. Tutti siamo diversi e tutti siamo indispensabili.

    2) la triade “distinzione”-“disprezzo”-“esclusione” mi ha fatto invece venire in mente la polica antiebraica adottata da Hitler. Distinzione sulla base di pseudo leggi biologiche sulla superiorità della razza ariana, disprezzo per un popolo apolide e che presta denaro a fini di lucro, esclusione ottenuta attraverso la negazione di diritti politici e civili fino ad arrivare all'annientamento dell'ebreo in quanto persona.

    3) una mia amica che studia l'arabo una volta mi insegnò una frase che, in caso fossi stata rapita da qualche terrorista musulmano, mi sarebbe servita per riottenere la mia libertà. La frase suonava più o meno così "credo in Allah e Maometto è il mio profeta". Ma credo che questa sia una ingenua leggenda metropolitana.

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  2. Grazie del commento Valeria. Trovo interessante la riflessione espressa nel punto1 e condivido quella del punto2 ma non capisco cosa c'entri quella del punto3. Volevi far capire che la tua amica non era proprio una cima?

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  3. assolutamente no, anzi! volevo spostare la discussione sulla convinzione del mondo musulmano di dover convertire l'occidente che sta abbandonando la religione. mi sembrava un argomento interessante, ma forse non vale la pena scriverne in questi commenti, in realtà.

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  4. Io e Selvaggia ne abbiamo parlato oggi, di quello che dice Valeria. Io dico che pensare a un Islam che non elabori un pensiero laico sia razzismo. Lei dice che il concetto di Umma ha come unica conseguenza la conversione forzata. Secondo me il nostro giudizio sull'Islam è troppo modificato dall'Islam come ce lo presenta la moda del giorni d'oggi, ma è anche vero che a me i musulmani sono sempre stati simpatici. Cmq sì, il punto 3 è un po' destabilizzante: o tu hai capito male, o la tua amica diffonde cazzate. Se reciti quell'espressione con convinzione d'animo di fronte ad almeno due testimoni (due musulmani maschi)ti converti all'Islam. Se vuoi appellarti alla bontà di un musulmano (ma difficilmente ti va bene se incorci un terrorista che ovviamente musulmano lo è solo di nome), basta che gli fai notare che sei cristiana. A quel punto se ti uccidono o ti fanno del male commettono una gravissima colpa.
    Per quanto riguarda il pezzo di Stefano, secondo me è troppo tecnicista. Vorrei che spiegasse più cose, che approfondisse di più i discorsi. Detto così è solo un ragionamento rapido che non mi dà le basi per dichiararmi d'accordo o contrario

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