domenica 19 dicembre 2010

Interferenze culturali e linguistiche nelle formule rituali dell’Italia antica

Popoli, culture e lingue dell’Italia antica

La penisola italiana appare, nel I millennio a.C., come un mosaico di popoli e lingue diverse nonché il teatro di straordinari incontri linguistici e culturali tra le popolazioni che già precedentemente si erano stanziate sul territorio e quelle che, da quel momento in poi, hanno eletto l’Italia a meta delle proprie migrazioni. In questo millennio si delineano i mutamenti storici che si dimostreranno fondamentali per lo sviluppo della cultura italica successiva, giungendo a influenzare quella latina e infine la romana. Da un lato, in Etruria (regione comprendente l’attuale Toscana, parte dell’Umbria e dell’alto Lazio fino al Tevere), si afferma la civiltà degli Etruschi (conosciuti dai Greci col nome di Tirreni), dall’altro, nella parte più estrema della penisola ovvero nelle attuali Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia, vengono fondate le prime colonie magnogreche.
A questo quadro si aggiungono le molteplici migrazioni indoeuropee in Italia le quali, partendo dalle Alpi, toccano gran parte della penisola fino ad arrivare in Sicilia.

Carta linguistica dell’Italia antica

La maggior parte delle popolazioni precedentemente elencate (quelle di lingua indoeuropea, per la precisione) si esprime, come si è già detto, mediante lingue legate tra loro da quella che si è soliti definire parentela genetica. Con questo termine si indica generalmente la comune discendenza di parlate diverse da un medesimo ceppo linguistico; ciò accade, come si è già visto, nelle varie lingue indoeuropee parlate in Italia, dall’origine comune, ma differenziate a seconda dell’evoluzione autonoma di ciascun ramo.
Se fino ad ora si è parlato di lingue geneticamente legate e affini poiché appartenenti al medesimo ceppo, risulta invece estranea a questo tipo di legame e parentela l’etrusco, lingua di origine incerta che non sembra poter essere riconducibile alla famiglia indoeuropea e della quale un’analisi approfondita rimane ancora piuttosto difficile a causa della frammentarietà con cui tale lingua è attestata. Il legame delle lingue italiche con l’Etrusco, non classificabile come parentela genetica, è piuttosto un caso di affinità o parentela ‘acquisita’, secondo la definizione utilizzata da Pisani. Tale concetto si basa su corrispondenze interlinguistiche dovute ad una vicinanza geografica innanzitutto, nonchè al contatto culturale, economico e ad una prolungata fase di bilinguismo o plurilinguismo.

Dopo aver brevemente elencato le principali culture presenti sul territorio italico, è bene chiarire la natura e le caratteristiche del termine Italici, utilizzato per designare, in maniera forse troppo genereica, le popolazioni di stirpe indoeuropea stanziatesi nella penisola italiana. Il concetto di Italici - e conseguentemente quello di lingue italiche - ha conosciuto, col progredire degli studi al riguardo, notevoli evoluzioni e tuttora può essere utilizzato per designare concetti se non opposti, quantomeno dissimili in parte:
in principio, infatti, gli indoeuropeisti, soprattutto francesi, facenti capo ad Antoine Meillet, concepivano con tale termine una vera e propria famiglia linguistica, parallela a quella germanica o a quella celtica, per fare un esempio, nella quale venivano accomunate tutte le parlate italiche presenti sul territorio della penisola prima dell’affermarsi del latino.
Questo schema unitario fu però messo presto in discussione e la questione fu pressoché risolta dagli studi di Vittore Pisani e, soprattutto, di Giacomo Devoto il quale distinse gli Osco-Umbri dai Latino-Falisci. Tale teoria, sebbene ampliata e riformulata negli anni seguenti, si è praticamente imposta nell’indeuropeistica attuale.

Per definire i confini della Lega Linguistica italica della quale per primo parla Pisani, è bene prendere in esame tre testi, testimonianze eccezionali dell’incontro culturale e linguistico della cultura italica, etrusca e latina.


Tavole iguvine



La divinità principale italica è senza dubbio, come anche per Greci e Latini, il dio del cielo e della luce il cui nome originale deriva dalla radice *djew- (Dyaus sanscrito, Zeus greco, *Dius latino e *Dious italico, purtroppo non conservatisi isolatamente, ma solo nella forma Juppiter ‘dio padre’).
Nei nomi delle tribù italiche è lampate la persistenza dell’uso indeuropeo di prendere il nome della tribù o della famiglia da un’animale, secondo il rituale del ver sacrum (come ad esempio i Piceni, così chiamati dal nome del picchio, animale sacro a Marte).
Questo non è l’unico caso in cui la religione italica influenzi i nomi e la lingua stessa: si pensi, infatti, all’intricato pantheon iguvino, composto perlopiù da genealogie di numerose divinità riconducibili a cinque principali (la roccia sacra Grabo, Propd- ‘la crescita’, Cubra ‘la buona’, Sake ‘il patto’ e Hodo dal valore sconosciuto). Una volta che un teonimo viene trasformato in aggettivo, esso assume capacità di determinare come attributo un’altra divinità, ad esempio la roccia Grabo va qualificare Giove della Montagna, Giove Grabovio.
Una peculiarità del pantheon umbro è poi la suddivisione in triadi; peculiarità che, secondo Luisa Banti, dalla cultura iguvina passò a influenzare quella etrusca. La triade iguvina fondamentale è composta da Giove, Marte e Vofiono: mentre Giove può essere facilmente accomunato all’etrusco Tinia, le altre due divinità umbre maschili vengono sostituite, in Etruria, da due femminili, Uni e Menerva.
Oltre a questa triade principale e ad altre secondarie, la religione umbra annovera inoltre un gran numero di divinità minori legate all’ambio naturale e delle quali sono facilmente rintracciabili le corrispettive latine tra le quali spiccano Kerria ‘Flora’ e le Diumpas Kerriias, ninfe o divinità delle acque.
Le divinità straniere che hanno riscosso più successo in territorio italico sono senza dubbio Eracle, forse mutuato dai greci campani grazie alla medazione etrusca, e i Dioscuri.
Le offerte iguvine durante le cerimonie sacre si dividono, secondo quanto tramandatoci dalle Tavole iguvine, nelle due grandi categorie sakri- e perakni-, la prima comprende tutto ciò proveniente da allevamenti o coltivazioni sacre, la seconda, invece, accomuna tutto quanto provenga dall’esterno e sia, per questo motivo, profano. Delle offerte non cruente la principale è la poni, liquido sacro che appare da solo o accompagnato dal vino. Anche le focacce sacre sono numerosissime e impiegate largamente.

Le Tavole Iguvine rappresentano un fortuito e rarissimo caso di conservazione di un testo tanto arcaico quanto importante per la lingua Umbra. Nelle sette tavole bronzee a noi pervenute sono conservate, infatti, formule rituali arcaiche in uso ancora fino alla tarda età repubblicana e augustea e, al contempo, uno straordinario esempio di prosa religiosa arcaica. Questo testo o meglio l’unione dei testi che costituiscono l’insieme delle Tavole, ha dunque un grande valore sia storico che linguistico: grazie alla loro complessità, infatti, forniscono molte più informazioni di quante potrebbero offrirne iscrizioni funebri e altri testi epigrafici, conferendo all’Umbro una dignità maggiore di molte lingue tramandate esclusivamente da una documentazione sporadica e frammentaria.
La consuetudine di iscrivere testi di particolare valenza, giuridica o liturgica che fosse, su di un supporto bronzeo non è certo nuova nel panorama culturale antico: si pensi, ad esempio, alle Tavole di Heraclea oggi conservate a Napoli, alla Tavola di Cortona e alla Lamina di Pyrgi, entrambe in lingua etrusca o al Foedus Cassianum che, secondo la testimonianza di Cicerone, era stato riprodotto su di una colonna bronzea esposta presso i rostri. Sono due le principali caratteristiche comuni a questi testi: la scelta del bronzo come materiale di supporto innanzitutto, perenne e caro alla ritualità arcaica; in secondo luogo il loro carattere di documenti di grande rilevanza esposti al pubblico.
Il testo delle Tavole Iguvine non è definibile come calendario liturgico né come descrizione di un singolo rituale ma contiene, seppur parzialmente, prescrizioni legate allo svolgimento di una processione sacra, formule di purificazione e norme che regolano i rapporti tra la Confraternita degli Atiedii e le Curie.


Liber Linteus di Zagabria


La religione è senza dubbio uno dei campi più studiati dagli etruscologi, vuoi perché un gran numero di notizie ci è giunto da scrittori antichi, vuoi perché le stragrande maggioranza delle fonti epigrafiche proviene da una ambito sepolcrale o comunque legato alla sfera della sacralità. È interessante osservare che molte divinità etrusche abbiano un’iconografia molto spesso di origine greca, anche se ciò non implica necessariamente una medesima sfera d’influenza.
Tin (o Tina o Tinia), divinità principale del pantheon etrusco, è raffigurata, ad esempio, con una corona in testa e con in mano uno scettro o un fulmine, analogamente a Zeus. Varrone indica invece come deus Etruriae princeps il dio Vortumnus (o Voltumna o Vertumnus) il quale, apparentemente non sovrapponibile a Tinia, in realtà potrebbe rivelarsi un semplice attributo della stessa divinità.
Le fonti archeologiche non forniscono notizie che possano avvalorare l’ipotesi della presenza di culti che coinvolgessero l’intero popolo etrusco (almeno fino alla prima metà del VII secolo), ma piuttosto sembrano indicare una grande presenza di rituali privati. Dalla seconda metà del VII secolo iniziano a moltiplicarsi i templi nelle città etrusche, come, ad esempio, a Tarquinia, Cere e Veio: secondo Servio una città etrusca, per essere regolare, doveva avere all’interno delle mura i templi di Tinia (Giove), Uni (Giunone) e Menerva (Minerva).
Una caratteristica (presunta o comunque difficilmente dimostrabile con certezza) del pantheon etrusco è la sua divisibilità per triadi. La principale sarebbe la stessa riportata da Servio, anche se non se ne hanno testimonianze dirette in Etruria ma solo a Roma, durante la fase di egemonia etrusca (monarchia dei Tarquini). Più interessante, anche perché strettamente legato alla religiosità italica e latina, è la qualificazione di una divinità con un aggettivo derivante dal nome di un’altra o con l’aggiunta specifica del nome dell’altra, al fine di delineare un rapporto genealogico (Tinas cliniiar: figli di Tina ossia i Dioscuri), un processo di assimilazione (Fufluns Pachie: Dioniso Bacco) o una qualifica specifica (Tinia calusna: Tinia di Calu o Tinia infero).
Altra peculiarità del senso religioso etrusco è la divinazione nelle sue varie forme (epatoscopia, arte fulgurale, arte ostentaria, cleromanzia, auspicio, libanomanzia, lecanomanzia), attività nella quale gli etruschi sembrano eccellere al punto da influenzare anche la vicina civiltà romana arcaica.

Il Liber linteus (o Mummia) di Zagabria è senza dubbio un unicum nel panorama dei documenti etruschi a noi pervenuti: tale eccezionalità è dovuta non solo alla lunghezza (approssimativamente 1300 parole) ma anche alla natura del suo contenuto e per il materiale impiegato come supporto. Il testo è scritto su undici bende di lino di lunghezza variabile, dai 3,24 m ai 28 cm, numerate in ordine decrescente. Ci si è recentemente chiesti se le bende potessero far parte di un codex piuttosto che di un volumen anche se si tende a considerare il Liber un vero e proprio involto, data l’assenza di lesioni negli spazi bianchi tra colonne, parte che, in un codex, avrebbe subito un’usura maggiore.
Grandi discussioni hanno suscitato per lungo tempo anche la provenienza e il contenuto del testo: prima di tale scoperta si credeva infatti impossibile un contatto culturale tra la penisola Italiana e l’Egitto che fosse anteriore alle conquiste romane. Tale contatto è invece stato provato in seguito, oltre che dalla Mummia stessa, anche da incisioni funerarie ritrovate ad Alessandria e risalenti all’età ellenistica nelle quali erano presenti nomi etnici che ricordano origine italica o addirittura tirrenica del defunto.
Per quanto riguarda il contenuto, il testo fu dapprima scambiato per un conteggio di persone e oggetti piuttosto che per un calendario liturgico come successivamente si rivelò. All’analisi più completa e profonda condotta da Olzscha, risultò che il Liber presentava spesso la struttura di una preghiera, confrontabile con i testi rituali italici e latini.


De agricultura


Sebbene ci siano stati studiosi che hanno cercato di riconoscere nella religione latina delle origini un senso del sacro elementare che riconoscesse nel numen una potenza indistinta e che permeasse di sé la realtà, tale teoria è facilmente confutabile grazie alla presenza in latino del termine deus, ereditato dall’indoeuropeo insieme ad un senso religioso ben più maturo e complesso.
Una caratteristica della religione latina rispetto a quelle greche e indoiraniche (oltre all’assenza di legami mitologici tra divinità e ad una sostanziale interdipendenza di rito e mito, caratteristica questa comune al senso della sacralità iguvino) è senza dubbio quella della prudenza che spinge all’inserimento di formule quasi giuridiche nell’ambito dei rituali sacri: non è raro trovare, infatti, la formula sive deus sive dea, la quale manifesta una radicale incertezza sulla natura - in questo caso sessuale - del divino.
La sistemazione del culto romano in un calendario organizzato è probabilmente dovuto al periodo egemonico etrusco su Roma: se infatti i riti latini erano già fissati nei particolari del loro svolgimento, solo grazie al calendario liturgico, mediato dagli etruschi ma proveniente dal mondo culturale magnogreco, questi ebbero una collocazione più stabile all’interno dell’anno. Stessa cosa si può dire dei santuari, sempre di origine greco-etrusca, prima dell’avvento dei quali le celebrazioni religiose erano officiate presso i vari sacelli o spazi sacri presenti in gran numero all’interno o intorno al territorio cittadino.
La principale triade divina romana arcaica (abbiamo già incontrato triadi divine sia presso gli etruschi che presso gli umbri) è quella composta da Giove, Marte e Quirino, l’ultimo dei quali non più tanto vitale in periodo storico. Da un punto di vista linguistico il nome di Quirino, al contrario di quelli di Giove < *Jou- e Marte <*Mart- (accomunabili alle prime due divinità della triade iguvina) che sono evidentemente sostantivi, sembra piuttosto un aggettivo, derivato in -no- di un tema nominale, come, d’altro canto, l’umbro Vofiono: tale caratteristica comune può essere considerata dunque preromana e preumbra, certamente più vicina all’origine indoeuropea delle triadi divine. Con l’affermarsi della Repubblica a Roma questa prima triade viene sostituita, forse per l’influenza della principale triade etrusca, dalla cosiddetta ‘triade capitolina’, composta sempre da Giove, affiancato questa volta da Giunone Regina e Minerva, ‘divinità collettiva dei mestieri e di coloro che li esercitano’, secondo la definizione data da Dumézil. La liturgia romana arcaica è ricca di rituali tanto pubblici, i sacra publica officiati a favore di Roma nel suo complesso o delle sue ripartizioni ufficiali, quanto privati, i sacra privata compiuti a vantaggio di ripartizioni non ufficiali, dalla gens alla familia. Le divinità principali della casa sono il Genius del padrone, il Lare domestico e i Penati, oggetto del culto quotidiano. Il culto privato può essere inoltre indirizzato anche a divinità maggiori, soprattutto a Cerere e Silvano, divinità d’ambito agricolo. Nell’ambito della produzione catoniana si tende a classificare il De Agricultura come un’opera secondaria e dallo scarso valore artistico. Se lo si considera però come una delle principali testimonianze della situazione sociale ed economica nelle campagne italiche intorno alla metà del II secolo a.C. e come uno tra i primi e più importanti documenti della prosa letteraria latina nel quale confluiscono tradizioni indigene, il folclore della società contadina arcaica, precettistica scientifica o pseudo tale di origine greca, se ne coglie il senso, l’importanza e ci si rende conto di quanto profondamente l’opera sia influenzata dall’animo e dalla personalità catoniana. La sezione più strettamente legata all’agricoltura si riduce ad un unico quarto del trattato mentre ampio spazio è dato ad altri campi del sapere tecnico-pratico. Si incontra, dunque, una sezione ‘meccanica’ nella quale è illustrato il procedimento di costruzione di macchinari finalizzati alla produzione e al trattamento di coltivazioni peculiari (quali la vite e l’ulivo in primis), una sezione ‘edile’ tesa ad illustrare le tecniche di costruzione della villa, una sezione ‘giuridica’ dedicata ai contratti-tipo, una sezione ‘culinaria’ e infine la sezione ‘religiosa’, nella quale sono conservate formule rituali arcaiche per la propiziazione delle attività agricole, insieme ad una rielaborazione di tradizioni mediche greche per curare uomini e animali. Il risultato è una sorta di piccola enciclopedia del proprietario terriero nella quale si fondono le tradizioni della manualistica specializzata e della trattatistica tecnica di tema agricolo


Conclusioni

Almeno secondo la definzione che ne da Pisani, la lega linguistica italica, anche definita come ‘italico’, è così chiamata poiché si estende grossomodo a tutto il territorio dell’Italia augustea, considerandone anche le relazioni esterne con altri territori, come ad esempio la Gallia e la penisola balcanica. Nonostante oggi sfugga la gran parte dei fatti di natura storica, economica e politica che portarono allo sviluppo di tale lega, si può brevemente accennare alle popolazioni e ai centri che, in diverse epoche, esercitarono, almeno sul piano culturale, una funzione direttiva su buona parte dell’Italia: anzitutto gli Etruschi che, dall’Italia centrale irradiarono la loro cultura (e soprattutto il loro alfabeto, mutuato dal greco), verso le Alpi da un lato e, dall’altro, verso il sud, fino almeno alla Campania, fornendo un modo di scrivere a Oschi, Umbri, Romani, Falisci, Piceni, Veneti e agli altri popoli dell’Italia settentrionale, di qui giungendo ai Germani, che lo rielaborarono nelle rune. Prendendo in esame l’alfabeto, caratteristica più manifesta dei testi esaminati, risulta, ad esempio, che le Tavole Iguvine sono compilate sia in alfabeto latino (V verso 8-18, VI r/v, VII r/v) che in alfabeto nazionale. Tale alfabeto nazionale umbro deriva da un etrusco recente di tipo perugino, mentre in V verso 1-7 Heurgon ha riconosciuto piuttosto un modello cortonese. Resta comunque certo che l’influenza degli Etruschi, in questo senso, sia massiccia, nonostante le deficienze dell’alfabeto etrusco siano state colmate dall’introduzione di grafemi originali umbri. A tale difficoltà di resa dei fonemi tipici dell’umbro ha dovuto sogper il giacere anche l’alfabeto latino. Anche gli Oschi, dal loro nucleo campano, imposero la propria lingua come lingua letteraria (si pensi ai tria corda di Ennio o all’importante ruolo giocato dalla fabula atellana, oggi purtroppo non pervenutaci, nella formazione di una letteratura latina). Furono importanti inoltre gli apporti culturali provenienti dalle colonie magnogreche, dagli influssi balcanici sulla costa adriatica, dall’invasione gallica nella pianura padana. Da ciascuno dei centri culturali e politici italici si sono irradiati, di volta in volta, i fatti religiosi, sociali e soprattutto linguistici comuni che ci consentono di parlare di una ‘lega linguistica italica’. Soffermandoci ora sull’aspetto linguistico della questione e consideriamo dapprima l’accento: un accento d’intensità sulla prima sillaba della parola deve aver determinato sincopi ed indebolimenti vocalici nelle sillabe successive tanto in latino quanto in oscoumbro ed etrusco. C’è la possibilità che, per quanto riguarda latino e oscoumbro, tale accentazione risalga alle loro radici indoeuropee occidentali (comune dunque anche al germanico e a parte del celtico) ma è impossibile affermare con certezza se siano stati protolatino e protooscoumbro a influenzare, in età preistorica l’etrusco o se tale caratteristica fosse connaturata alle lingue citate già da prima che si incontrassero in Italia. Nel vocalismo si segnala soprattutto il passaggio eu > ou, fenomeno che sembra interessare buona parte dell’Italia. L’ou così sorto, insieme agli ou più antichi, tende poi a mottongare in o, u. Tale monottongazione, non accettata dal latino classico ma ampiamente attestata in quello volgare, ha probabilmente come epicentro l’umbro o il falisco.
Per quanto riguarda il consonantismo è interessante notare l’alternanza e l’opposizione di f- e h- in posizione iniziale, tanto in etrusco (per esempio hasti accanto a fasti, haltu accanto a faltu) quanto, seppur meno palese, in latino (per esempio fedus e haedus, fircus e hircus, horda e forda) e in falisco (haba e faba, hodie e foied). Tale opposizione è plausibilmente spiegabile con la resistenza di un h- di sostrato ad un f- di ragione indoeuropea, come suggerisce il confronto con altre lingue di medesima origine. Ad un sostrato ‘mediterraneo’ sarebbe riconducibile anche il rotacismo di -d-, vistoso soprattutto nell’umbro (peri, persi = latino pede) e di lì penetrato nel latino. Di particolare rilevanza, inoltre, sono il rotacismo di -s- intervocalico, presente in osco, umbro, falisco e latino e la palatalizzazione e spirantizzazione del nesso C + j.
Un confronto morfologico, data la relativa scarsezza di testimonianze etrusche e la non appartenenza dell’etrusco stesso alla derivazione indoeuropea comune alle altre lingue italiche in questione, risulterebbe piuttosto un elenco di isoglosse latino-oscoumbre. È interessante, invece, aprire una seppur breve parentesi sul lessico.
In latino confluiscono vocaboli etruschi e greci, questi ultimi sia direttamente che attraverso la mediazione dall’etrusco stesso; soprattutto in oscoumbro confluiscono invece vocaboli latini, specialmente di carattere amministrativo, politico e giuridico (per esempio, in oscoumbro akkatus < advocatus, aidilis < aediles, ceus < civis); dall’oscoumbro, invece, il latino mutua vocaboli quali pius < *quei-, popa ‘sacerdote’ < *pequ- e scrofa, con -f- oscoumbro.


Lo studio dell’etrusco ha da sempre offerto particolari difficoltà agli studiosi, i quali si sono approcciati alla scarsa documentazione giuntaci con vari metodi ermeneutici:
tra i primi attuati è quello etimologico classico che, applicato integralmente, non ha portato a risultati criticamente validi. Altro metodo è quello combinatorio, sviluppatosi al principio del secolo sorso come reazione alle grandi prove fallite dell’etimologismo, che consiste in uno studio interno dei testi etruschi, nel raffronto e nella combinazione dei loro elementi lessicali e morfologici. Oltre al recente metodo strutturale, quello che più interessa la nostra trattazione è senza dubbio il cosiddetto bilinguismo, nato dall’accostamento dei singoli testi etruschi ad altrettanti testi di origine greca, latina o italica che presumibilmente potevano presumersi di natura affine. Sono da annoverare in quest’ambito gli studi di Olzscha a partire dal 1934 che propongono uno studio del Liber linteus di Zagabria condotto mediante il confronto con le Tavole Iguvine e con formule sacrificali latine.

Le Tavole Iguvine sono, senza alcun dubbio, il riflesso su bronzo di libri rituali vergati, plausibilmente, su di un materiale deperibile; il Liber linteus, a sua volta, è un fortunatissimo esempio di conservazione di un libro rituale analogo. Prosdocimi, nell’ambito del suo lavoro in Lingue e dialetti dell’Italia antica, azzarda addirittura l’ipotesi che i testi alla base dei libri rituali in questione e di quelli di area etrusca e circumetrusca fossero di una medesima matrice, ipotesi che è alla base del metodo bilinguistico di cui si è detto sopra.

Continuando con il nostro confronto, si può dimostrare che la vicinanza strutturale di piaculo e lustrazione nelle Tavole iguvine con le formule catoniane (soprattutto i capp. 134-141), giustifichi l’esistenza di una stessa struttura alla base dei due testi:
un esempio per tutti di questa corrispondenza della compaginazione generale, delle sequenze, dei giri sintattici e soprattutto delle clausole rituali dei due testi, è l’incredibile somiglianza della clausola di nullità del piaculo nei due testi, tanto vicina che l’opera catoniana diviene chiave interpretativa del passo iguvino.

Alla luce di tale esempio risulta chiaro che questa stessa struttura alla base dei due testi non può ridursi nella semplice comunanza rituale ma, piuttosto, in un vero e proprio archetipo, non certo lachmanniano, ma modello da riempire e modificare a seconda del rito. L’esistenza di tali brogliacci è palesata dalle Tavole iguvine stesse, dove la preghiera sacrificale a Giove Grabovio, in extenso in VIa 23-25, viene riformulata altrove con una struttura sempre uguale, nella quale il nome Giove Grabovio è presto sostituito, di volta in volta, con quello di Trebo, Tefro, Fiso e via dicendo.


Bibliografia essenziale

Ancillotti A. - Cerri R. 1996, Le Tavole di Gubbio e la civiltà degli umbri, Perugia, Jama.


Belfiore V. 2010, Il liber linteus di Zagabria: testualità e contenuto, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore.


Bottiglioni G. 1954, Manuale dei dialetti italici (Osco, Umbro e dialetti minori), Bologna.


Canali L. - Lelli E. 2000, Catone il Censore / L’agricoltura, Milano, A. Mondadori.


Devoto G. 1951, Gli antichi italici, 2° edizione, Firenze, Vallecchi.


Dumezil G. 1977, La religione romana arcaica, Milano, Rizzoli.


Lejeune M. - Briquel D. 1988, ‘Lingue e scritture’, in Italia omnium terrarum alumna: la civiltà dei Veneti, Reti, Liguri, Piceni, Umbri, Latini, Campani e Iapigi, Milano, Libri Scheiwiller, pp. 434-474.


Prosdocimi A. L. 1972, ‘Redazione e struttura testuale delle Tavole Iguvine’, in Aufstieg und Niedergang der romischen Welt, Berlin.

- 1978, Lingue e dialetti dell’Italia antica, Roma, Biblioteca di Storia Patria.


F. 1985, ‘Il liber linteus di Zagabria’, in Scrivere Etrusco, Milano, U. Hoepli, pp. 17-54.




A.


Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts with Thumbnails